Qualcuno per cui morire

Strano Natale, strano Capodanno. Stanno tutti male, influenza o Covid poco cambia, il male del mondo è ovunque, la guerra è lontana solo per chi non vuole vedere.

Mi sforzo di fare festa, cucinare, apparecchiare, servire, condividere. Mi sforzo di fare auguri per una vita serena, per un mondo migliore, per gestire rabbia e dolore che sono solo lo specchio dell'impotenza, la nostra mostruosa spina nel fianco. Tutti o quasi tutti combattono con questa bastarda, quella che fa sentire inutile ogni tuo piccolo sforzo, vano quel piccolo gesto che credevi, nell'atto di compierlo, il mattoncino buono per tirare su la grande casa. Quella maledetta impotenza che fa sembrare il bianco un po' più opaco e il nero mestamente slavato, quella che non ti fa vedere il contrasto e le differenze, quelle che devono esserci e di cui andare fieri, quelle che servono per far funzionare una società. L'eterogenicità che non divide, anzi, è la pietra miliare che rifugge l'omologazione e l'appiattimento.

Finchè... In questo mare di grigio dove sai di essere diverso dai morti solo perché il tuo respiro ancora appanna i vetri, accade qualcosa. A me, quasi sempre, accade una cosa precisa. Arrivano due note nuove, che abbracciano il mood di queste mie giornate, e sento di nuovo quella spinta diversa, che parte dal cuore e che accende il motore. Sento che c'è ancora da fare, possibilità diverse di essere, perché c'è ancora un'emozione da provare. E sono sempre e di nuovo qui a dire grazie ad una melodia, che riesce inaspettatamente a rimettere insieme i cocci, riporta i frammenti negli insiemi giusti, cerchi che si toccano, si scontrano, si fondono, si intersecano, pezzi che da soli non troverebbero un modo per far funzionare gli ingranaggi. Nessuna dose, nemmeno la più massiccia, dei prodotti di merda che ci propinano riuscirà mai a vincere contro quello che, seppur faticosamente, ogni tanto viene fuori dal cilindro magico, sbucando dal nulla, da quel tappeto di niente in cui vorrebbero farci vegetare. Il coniglio è sempre dietro l'angolo, ed è bianco candido, imprevedibile, divertente. Basta solo lasciare aperti i sensi, anche durante il letargo.

E Buon Natale

A chi devo fare gli auguri di Natale?
È una domanda che continuo a farmi, nonostante sia sempre più difficile darmi una risposta. Non riesco più tanto a tener conto della situazione fra parenti e amici cattolici, atei, razionalisti, buddisti, musulmani, ebrei, anticlericali... e mica devo continuare, avete capito.
Col passare degli anni la gente diventa sempre più ex di qualcosa e di qualcuno, e non so se questo accade perché ci sia più conoscenza e libertà, o perché si è alla continua ricerca di ciò che in realtà non si potrà mai trovare cercando nel posto sbagliato, fuori da se stessi. Al di là di questo, non è che io abbia l'interesse né l'esigenza di tener conto dei cambiamenti altrui, il mio affetto resta immutato. Io a Natale gli auguri li faccio a tutti, amici e nemici, e pure a quelli che non conosco affatto. Perché per me il Natale è un'occasione. Che in quanto tale non andrebbe mai sprecata.
Allora mi disconnetto dall'amore e dall'odio e volo medio, tra i sensi della gente e i diritti di ogni creatura vivente, e prego che nessun essere umano dimentichi i doveri che la vita stessa impone, con maggior forza ai pensanti.
Quindi, sia che stiate per trascorrere il Natale in compagnia tra luminarie scintillanti oppure in famiglia con i bambini che sono la luce del mondo, che siate da soli in un letto d'ospedale al buio già dalle otto di sera o in penombra nella stanza dei bottoni indecisi su quale pigiare, o che stiate imbracciando un fucile nella notte più nera che c'è, vi prego: pensate che il Natale è un biglietto vincente della Lotteria già in vostro possesso, prezioso e unico.
Non lo sprecate. Cambia la vita. 

Caterina Somma



Il linguaggio del genitore

Il mestiere del genitore è un lavoro a tempo indeterminato. Che ha inizio e mai fine, nemmeno quando pensi che l'unica soluzione sarebbe dare le dimissioni. È un mestiere per cui nessuno ti ha mai formato e quello che hai potuto imparare dagli esempi altrui ti serve a poco e niente.
Ogni genitore parla un linguaggio a sé, con grammatica, logica e fonemi diversi, che variano anche da figlio a figlio. Pressoché inutile il confronto con altri genitori. Le lingue sono infinite, tutte ostiche ed enigmatiche, che non appena pensi di aver imparato a livello base ti cambiano sotto gli occhi, mettendo in crisi la tua adultità. Che ha la caratteristica di perdere via via l'elasticità necessaria a cambiare marcia. Che comunque cambi.

Il linguaggio del genitore deve necessariamente comporsi di elementi diversi. Le parole sono la facciata del palazzo. Che può essere splendida in un edificio che nasconde irreparabili difetti di costruzione oppure anonima, di un palazzo solido e durevole. Facciata la cui interezza dipende pure da quali e quante intemperie è esposta nel corso del tempo, molte delle quali sono i figli stessi a produrre. Sarebbe bello se i pargoli lo capissero che le loro saette sono in grado di radere al suolo un grattacielo di 100 piani. Forse conserverebbero i dardi nella faretra in attesa di un bersaglio quanto meno più meritevole di esserlo. Ma questo non accade quasi mai.
Il genitore nasce analfabeta, al limite balbuziente, e il suo linguaggio cresce al crescere del prodotto generato. E anche se col trascorrere del tempo impara sempre nuove parole resta infantilmente affezionato a quei termini che gli sembra funzionino meglio. Quelli che magari saranno la causa del denaro che spenderà più avanti per la psicoterapia dei figli. Ma vallo a sapere prima.
Man mano che i ragazzini crescono gli adulti cambiano pelle, alternando la comunicazione autorevole a quella fraterna a quella amicale. E la maggior parte delle volte che aprono bocca subito dopo vorrebbero essersela mozzicata quella lingua impaziente e inopportuna. Ma se ne accorgono sempre un po' troppo tardi.

È da un po' che non faccio altro a suggerire ad una figlia di andarci piano. Come pensare di far sorvolare i continenti ad un aereo solo soffiandoci sopra. Eppure io lo so cosa voglio dire.
Vorrei far capire ad un essere che mi somiglia e che si fa tanto male ogni volta che sbatte la testa cosa scongiurerebbe se solo praticasse un po' di pazienza e imparasse a godere dell'attesa.
Io dico "Rallenta" e lei mi risponde senza parole, con sguardo implorante, che proprio non si può a vent'anni andarci coi piedi di piombo. E io questo lo so, perché sono andata molto più veloce di lei, molto prima di lei. Ma, contrariamente a lei, io avrei voluto tanto che qualcuno mi fermasse. Perciò insisto. Dalla gola e attraverso gli occhi cerco di passarle il mio concetto di andar piano. Mi sforzo, ma non riesco. E quando lei si allontana sento il monologo che avrei voluto fare. "Non sai cosa vuol dire??? Ma sì che lo sai! Hai la patente, no? Guidi da anni ormai. Cosa hai modo di fare quando vai piano? Dimmi una serie di cose che puoi fare guidando piano! Non lo sai? Te lo dico io. Puoi essere più attenta a quello che ti accade intorno, puoi concederti un sguardo al panorama, o una fermata per sgranchirti le gambe oppure, che so, puoi cantare mentre guidi. Di certo puoi goderti di più il viaggio. E se sei partita per tempo puoi anche evitare le ansie dei ritardi e non lasciare che nessuno rimanga per strada ad aspettarti". 

Il monologo è bello. Ma tu sei e resti sempre un genitore. Che per questioni anagrafiche ne ha viste tante. Ne ha passate tante. Come quando essendo fortemente in ritardo sull'orario di partenza e decidi di prendere l'auto anziché il treno diretto per la stazione di Bologna Centrale la mattina del 2 agosto 1980. E per quella fretta, di ieri, di arrivare, oggi sei qua a raccontarlo. E sei diventato genitore. Con un idioma quasi incomprensibile per i tuoi figli.
Forse, meglio così.


Diversità

Che poi scrivere serve molto più a me che agli altri. Che è l'unica cosa che non mi fa sentire i dolori, il tempo perso, la vita che passa. Serve a sentirmi eternità e passato, a ricordarmi che quello che è stato a qualcosa è servito, che forse ho lasciato traccia nella vita degli altri. Perché il tormento di noi viventi è di passare senza che nessuno se ne accorga. Per questo qualcuno figlia, e qualcun altro sente il bisogno di creare bellezza. O bruttezza. Essere ricordati è così importante che a qualcuno va bene anche se succede nel male.
A tratti mi sembra di essere oltre. In fondo ho capito di aver scelto, e da parecchio tempo, di spendermi per gli altri piuttosto che essere qualcuno. La mia vita tutto sommato è già stata, ed è stata nell'amore per la vita.
E allora perché il tormento resta? Perché manca sempre un gesto, un tramonto, un bacio per sentirsi completi? Vivo nel servizio altrui e mi perdo nel sogno di una vita lontana, dove ho già conosciuto i gesti, le mode, le persone. Le ho toccate, amate, perdute. Le ho rese felici per attimi che ricordo come eternità e le ho viste andare, incontro ad altre storie lontane dalla mia, come se il contatto non ci fosse mai stato. O forse no.
Difendo la diversità e strenuamente mi batto per sostenerla, ma la mia sembra essere unica, e non contemplata da quasi tutti gli esseri incrociati. Pretendo, voglio, rubo, con gli occhi e con l'anima, ma restituisco a piene mani, col sorriso e con le lacrime, con sudore mai compreso. Mai pagato. Sento battiti di cuore che non hanno età e mai l'avranno. Anche quando stanchi decideranno di cessare. Ma penso che io sarò, comunque. E sinceramente, sapere dove, come e quando comincia a stuzzicarmi molto di più di quanto facciano gli aneliti terreni.


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