Il mestiere del genitore è un
lavoro a tempo indeterminato. Che ha inizio e mai fine, nemmeno quando pensi
che l'unica soluzione sarebbe dare le dimissioni. È un mestiere per cui nessuno
ti ha mai formato e quello che hai potuto imparare dagli esempi altrui ti serve
a poco e niente.
Ogni genitore parla un linguaggio
a sé, con grammatica, logica e fonemi diversi, che variano anche da figlio a
figlio. Pressoché inutile il confronto con altri genitori. Le lingue sono
infinite, tutte ostiche ed enigmatiche, che non appena pensi di aver imparato a
livello base ti cambiano sotto gli occhi, mettendo in crisi la tua adultità. Che ha la caratteristica di perdere via via l'elasticità necessaria a cambiare
marcia. Che comunque cambi.
Il linguaggio del genitore deve
necessariamente comporsi di elementi diversi. Le parole sono la facciata del
palazzo. Che può essere splendida in un edificio che nasconde irreparabili
difetti di costruzione oppure anonima, di un palazzo solido e durevole.
Facciata la cui interezza dipende pure da quali e quante intemperie è esposta nel corso del
tempo, molte delle quali sono i figli stessi a produrre. Sarebbe bello se i pargoli lo capissero che le loro saette sono in grado di radere al suolo un
grattacielo di 100 piani. Forse conserverebbero i dardi nella faretra in attesa di un
bersaglio quanto meno più meritevole di esserlo. Ma questo non accade quasi mai.
Il genitore nasce analfabeta, al
limite balbuziente, e il suo linguaggio cresce al crescere del prodotto
generato. E anche se col trascorrere del tempo impara sempre nuove parole resta
infantilmente affezionato a quei termini che gli sembra funzionino meglio. Quelli
che magari saranno la causa del denaro che spenderà più avanti per la
psicoterapia dei figli. Ma vallo a sapere prima.
Man mano che i ragazzini
crescono gli adulti cambiano pelle, alternando la comunicazione autorevole a
quella fraterna a quella amicale. E la maggior parte delle volte che aprono
bocca subito dopo vorrebbero essersela mozzicata quella lingua impaziente e inopportuna. Ma
se ne accorgono sempre un po' troppo tardi.
È da un po' che non faccio altro
a suggerire ad una figlia di andarci piano. Come pensare di far sorvolare i continenti ad un aereo solo soffiandoci sopra. Eppure io lo so cosa voglio dire.
Vorrei far capire ad un essere
che mi somiglia e che si fa tanto male ogni volta che sbatte la testa cosa
scongiurerebbe se solo praticasse un po' di pazienza e imparasse a godere
dell'attesa.
Io dico "Rallenta" e
lei mi risponde senza parole, con sguardo implorante, che proprio
non si può a vent'anni andarci coi piedi di piombo. E io questo lo so, perché sono
andata molto più veloce di lei, molto prima di lei. Ma, contrariamente a lei, io avrei voluto tanto che
qualcuno mi fermasse. Perciò insisto. Dalla gola e attraverso gli occhi cerco di passarle il mio concetto di andar piano. Mi sforzo, ma
non riesco. E quando lei si allontana sento il monologo che avrei voluto fare. "Non sai cosa vuol dire??? Ma
sì che lo sai! Hai la patente, no? Guidi da anni ormai. Cosa hai modo
di fare quando vai piano? Dimmi una serie di cose che puoi fare guidando piano! Non lo sai? Te lo dico io. Puoi essere più attenta a quello che ti accade intorno, puoi concederti un sguardo al panorama, o una fermata per sgranchirti le gambe oppure, che so, puoi cantare mentre guidi. Di certo puoi
goderti di più il viaggio. E se sei partita per tempo puoi anche evitare le ansie
dei ritardi e non lasciare che nessuno rimanga per strada ad aspettarti".
Il monologo è bello. Ma tu
sei e resti sempre un genitore. Che per questioni anagrafiche ne ha viste tante. Ne ha
passate tante. Come quando essendo fortemente in ritardo
sull'orario di partenza e decidi di prendere l'auto anziché il treno
diretto per la stazione di Bologna Centrale la mattina del 2 agosto 1980. E
per quella fretta, di ieri, di arrivare, oggi sei qua a raccontarlo. E sei diventato genitore. Con un idioma quasi incomprensibile per i tuoi figli.
Forse, meglio così.