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Il linguaggio del genitore

Il mestiere del genitore è un lavoro a tempo indeterminato. Che ha inizio e mai fine, nemmeno quando pensi che l'unica soluzione sarebbe dare le dimissioni. È un mestiere per cui nessuno ti ha mai formato e quello che hai potuto imparare dagli esempi altrui ti serve a poco e niente.
Ogni genitore parla un linguaggio a sé, con grammatica, logica e fonemi diversi, che variano anche da figlio a figlio. Pressoché inutile il confronto con altri genitori. Le lingue sono infinite, tutte ostiche ed enigmatiche, che non appena pensi di aver imparato a livello base ti cambiano sotto gli occhi, mettendo in crisi la tua adultità. Che ha la caratteristica di perdere via via l'elasticità necessaria a cambiare marcia. Che comunque cambi.

Il linguaggio del genitore deve necessariamente comporsi di elementi diversi. Le parole sono la facciata del palazzo. Che può essere splendida in un edificio che nasconde irreparabili difetti di costruzione oppure anonima, di un palazzo solido e durevole. Facciata la cui interezza dipende pure da quali e quante intemperie è esposta nel corso del tempo, molte delle quali sono i figli stessi a produrre. Sarebbe bello se i pargoli lo capissero che le loro saette sono in grado di radere al suolo un grattacielo di 100 piani. Forse conserverebbero i dardi nella faretra in attesa di un bersaglio quanto meno più meritevole di esserlo. Ma questo non accade quasi mai.
Il genitore nasce analfabeta, al limite balbuziente, e il suo linguaggio cresce al crescere del prodotto generato. E anche se col trascorrere del tempo impara sempre nuove parole resta infantilmente affezionato a quei termini che gli sembra funzionino meglio. Quelli che magari saranno la causa del denaro che spenderà più avanti per la psicoterapia dei figli. Ma vallo a sapere prima.
Man mano che i ragazzini crescono gli adulti cambiano pelle, alternando la comunicazione autorevole a quella fraterna a quella amicale. E la maggior parte delle volte che aprono bocca subito dopo vorrebbero essersela mozzicata quella lingua impaziente e inopportuna. Ma se ne accorgono sempre un po' troppo tardi.

È da un po' che non faccio altro a suggerire ad una figlia di andarci piano. Come pensare di far sorvolare i continenti ad un aereo solo soffiandoci sopra. Eppure io lo so cosa voglio dire.
Vorrei far capire ad un essere che mi somiglia e che si fa tanto male ogni volta che sbatte la testa cosa scongiurerebbe se solo praticasse un po' di pazienza e imparasse a godere dell'attesa.
Io dico "Rallenta" e lei mi risponde senza parole, con sguardo implorante, che proprio non si può a vent'anni andarci coi piedi di piombo. E io questo lo so, perché sono andata molto più veloce di lei, molto prima di lei. Ma, contrariamente a lei, io avrei voluto tanto che qualcuno mi fermasse. Perciò insisto. Dalla gola e attraverso gli occhi cerco di passarle il mio concetto di andar piano. Mi sforzo, ma non riesco. E quando lei si allontana sento il monologo che avrei voluto fare. "Non sai cosa vuol dire??? Ma sì che lo sai! Hai la patente, no? Guidi da anni ormai. Cosa hai modo di fare quando vai piano? Dimmi una serie di cose che puoi fare guidando piano! Non lo sai? Te lo dico io. Puoi essere più attenta a quello che ti accade intorno, puoi concederti un sguardo al panorama, o una fermata per sgranchirti le gambe oppure, che so, puoi cantare mentre guidi. Di certo puoi goderti di più il viaggio. E se sei partita per tempo puoi anche evitare le ansie dei ritardi e non lasciare che nessuno rimanga per strada ad aspettarti". 

Il monologo è bello. Ma tu sei e resti sempre un genitore. Che per questioni anagrafiche ne ha viste tante. Ne ha passate tante. Come quando essendo fortemente in ritardo sull'orario di partenza e decidi di prendere l'auto anziché il treno diretto per la stazione di Bologna Centrale la mattina del 2 agosto 1980. E per quella fretta, di ieri, di arrivare, oggi sei qua a raccontarlo. E sei diventato genitore. Con un idioma quasi incomprensibile per i tuoi figli.
Forse, meglio così.


Genitori e guerre mondiali


Noi genitori che dopo due anni di segregazione, attoniti, guardiamo i nostri figli e non sappiamo come spiegar loro quello che succede. Noi che con la pandemia pensavamo di aver assistito a qualcosa che non sarebbe mai potuto accadere. Noi che credevamo bastasse ricordare ogni anno nelle scuole gli orrori della guerra affinché non si ripetessero più. Noi che non troviamo più parole per giustificare il ripetersi di tali eventi. Noi, cosiddetti adulti, che dovremmo dare l'esempio alle nuove generazioni che non si fidano più di noi e ci accusano di parlare a vanvera e di non fare mai i fatti. Noi che non sappiamo se l'aria di domani per i nostri figli sarà respirabile e non sappiamo nemmeno se verrà un domani. Noi cosiddetti grandi, disperati, che non abbiamo più una bussola su cui orientarci per non far perdere la bussola ai nostri figli.
Dove troveremo occhi per vedere il cammino e parole per motivare le nostre ragioni. E per dire quello che non capiamo più.

 

#Sanremo2014, le prime due serate


Dopo due giorni di full immersion nel Festival più scontato del mondo, un po' per dovere un po' per piacere spendo qualche riga in più di quelle concesse in un tweet, dicendo innanzitutto che sono contenta di aver tenuto duro, ieri sera, fino all'arrivo delle Nuove Proposte. Devo ancora capire se mi siano piaciute perché paragonate alla mediocrità di quello che ho sentito prima o se perché in effetti valgano qualcosa. Comunque, i cosiddetti "emergenti" se la sono cavata molto meglio dei colleghi annoverati nella categoria superiore (Zibba e Diodato mi sono piaciuti molto). Tanto che, in piena notte, fantasticavo su una prossima edizione fatta solo di facce nuove. Un po' come ci auguriamo possa succedere in politica. Ma non succederà in politica, e non succederà neanche a Sanremo.

Il tentativo di risollevare le sorti della musica leggera italiana, una volta l'anno, tramite una manifestazione del genere, è penoso e triste. Tanto varrebbe stravolgerlo veramente il festival e dare più chance a chi fa fatica a farsi conoscere. Ma il mio è un suggerimento che lascia il tempo che trova. Anche perché i pochi giovani che riescono a farsi notare vengono divorati dalla famelicità delle case discografiche che li sfruttano battendo il ferro finchè è caldo e se ne fregano di curare un prodotto nuovo con l'attenzione che necessiterebbe il neonato, per farlo crescere sano e bello, invece che farlo bruciare nel giro di due album. Mi chiedo se ci sia al mondo qualcuno che condivida le mie osservazioni.

Tornando allo show e al mio lavoro, ho trovato Fazio professionale, Littizzetto noiosa; buona la regia, ottime le luci, brava l'orchestra (anche se mi sarebbe piaciuto pure vederla, così come da promessa di Forzano, che prima di iniziare gongolava per la nuova "spider-cam" con cui voleva far miracoli).
Pur apprezzando lo sforzo (si fa per dire) di alcuni artisti a partecipare ad una manifestazione che cerca, nel suo piccolo, di aiutare un paese in crisi e le sue finanze (ci dicono quanto costa, ma vorrei tanto sapere e nessuno mi dirà mai, quanto guadagna Sanremo), personalmente avrei evitato l'autocelebrazione di mamma Rai e del suo 60esimo compleanno. Se non altro, in serate già tanto lunghe per natura, ci saremmo evitati le cariatidi di cui, ahimè, l'Ariston pullula. Per carità, li adoro tutti, dalla Carrà a Baglioni, ma qui ho bisogno di facce nuove. E ho bisogno di quello che mi aspetto arrivi da una manifestazione canora: canzoni!

Invece noto con tristezza che delle canzoni c'è poco e niente. 
Ma nessuno scrive più canzoni? Quelle che raccontavano una storia, quelle che hanno una melodia che ti resta in mente per decenni, quelle che rendono la musica insostituibile?
In due giorni ho sentito un mucchio di note e un mucchio di parole che sembravano essere state buttate a forza nel sacchetto dello Scarabeo per poi essere ripescate a caso, nel tentativo di formare qualcosa di senso compiuto.

Se non ho niente da dire, io non scrivo. Gradirei la stessa accortezza da parte degli altri. Così non è.
E allora ci becchiamo quello che c'è. Che almeno fa guadagnare a qualcuno, nella peggiore delle ipotesi, qualche migliaio di euro di Siae.
Peccato per la musica. Peccato per l'Italia. Peccato per tutti noi.  
© Caterina Somma

#Sanremo2014


Ci siamo. La conferenza stampa di oggi sancisce ufficialmente l'inizio del rituale sanremese.
Fazio - al suo secondo anno come timoniere, conduttore e direttore artistico - illustra il programmino con chiarezza e concisione invidiabili, aiutato da una Littizzetto in versione formale, stranamente silente.
Espone i temi del Festival ("La Bellezza" e "I 60 anni della Rai"), parla della straordinaria, romantica scenografia e passa la parola alla sua partner, che si mostra felice di essere nuovamente al suo fianco, soprattutto per aver di nuovo la possibilità di mangiare ancora gli "agnolotti di borraggine" e quella di vestire abiti firmati, quest'anno di Gucci.

Si parla di Pif (Pierfrancesco Diliberto), da MTV, che condurrà il Pre-Festival, ovvero l'Anteprima, e di Filippo Solibello e Marco Ardemagni di Caterpillar, che gestiranno invece il Dopo-Festival esclusivamente sul web, in live streaming. Ma si parla soprattutto di ospiti: Raffaella Carrà, Renzo Arbore, Franca Valeri, Claudio Baglioni, Gino Paoli, Enrico Brigano e Luca Parmitano (l'astronauta), facce di casa insomma (tra cui annoveriamo anche Laetizia Casta), tanto per fare da contraltare ad una serie di stranieri tra cui Paolo Nutini, Yusuf Islam (ovvero Cat Stevens), il cantautore belga Stromae e quello canadese Rufus Wainwright. Garantita anche la partecipazione di una parte dell'Orchestra Mozart, che renderà omaggio allo scomparso maestro Abbado.

Come al solito, a giudicare le canzoni (attenzione, non i cantanti!) saranno il televoto, la giuria della stampa e i giurati di qualità (solo nelle ultime due serate). Anche quest'anno, ognuno dei 14 big porterà due canzoni tra le quali il pubblico dovrà scegliere la preferita da portare avanti nella gara. Per i giovani, 8 nuove proposte che si preannunciano - come al solito - qualitativamente degne dei big. Il venerdì, serata "Sanremo Club" (sintesi tra Festival di Sanremo e Club Tenco Club) dove i Big potranno esibirsi in un altro brano, scelto tra le più belle canzoni italiane d'autore.

Dopo la prima mezz'ora di conferenza, Mauro Pagani è il primo a riportare l'attenzione su quello che dovrebbe essere l'argomento principale, la musica, e a prendere le parti dei musicisti, cercando di difendere e proteggere una categoria sempre meno considerata.
Duccio Forzano, il regista, ringrazia mamma Rai per il gioiellino tecnologico in regalo, una "spidercam", con cui fare incursioni soprattutto tra gli orchestrali, stipati a piani nella tanto decantata scenografia di Emanuela Trixie Zitkowsky (che ricorda un palazzo del settecento, ma scorda le esigenze tecniche e acustiche di chi lo occupa...) e comunica inoltre che quest'anno l'audio sarà in Dolby digitale 5.1, sia sui canali generalisti, sia sul digitale terreste sia sul web. Si sentirà la differenza?

Dopo una cinquantina di minuti la Littizzetto ha un sussulto, e in una piccola pausa infila un "Mangiamo?", pensando al rinfresco che segue ogni conferenza stampa che si rispetti (e motivo per cui tanti colleghi accorrono a certi eventi).
Fazio, professionale e sorridente, garantisce "canzoni non sanremesi... ma all'insegna della contemporaneità..." anche se con "un paio d'eccezioni evidenti". E promette "una settimana di leggerezza che, speriamo, faccia bene". Speriamo sia così.
E' difficile fare uno spettacolo leggero senza contare sul peso della buona musica.

Caterina Somma

lippo Solibello e Marco Ardemagni, conduttori di “Caterpillar AM”, uno dei programmi di punta di Radio2. - See more at: http://sanremo.blog.rai.it/2014/02/10/dopofestival-in-diretta-esclusiva-sul-web/#sthash.bM65zZkf.dpuf
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Una speranza di nome Francesco


Ieri mattina, per le vie del mercato rionale di Testaccio, il pescivendolo commentava il brutto tempo e la mancanza di acquirenti aggiungendo "Semo pure senza Papa...". In effetti, siamo tutti un po' orfani senza di lui, a Roma un po' di più. Qui, non se ne può fare a meno.
Ma perché c'è tanto "bisogno di Papa"?

Sarà che sono in un momento delicato della mia vita, sarà che fondamentalmente sono cattolica, ma io quest'elezione la aspettavo con ansia. La sede vacante, con un emerito in pantofole che aspetta il suo successore, mi faceva strano.
Come tanta gente, anch'io ho guardato in diretta il comignolo della stufa della Sistina, per poter finalmente veder uscire quel fumo bianco. E ho gioito, come tanti, quando è stato certo che il colore fosse quello giusto. In questi momenti, un cattolico non può pensare ai crimini della Chiesa, ai preti pedofili, ai segreti di Stato. Non dimentica, no, ma il suo pensiero non può essere lì. Non può.

Un cattolico guarda gli occhi del nuovo arrivato, osserva il suo viso, il mondo di gesticolare, il tono della sua voce. Cerca di cogliere e condividere l'accenno di un sorriso, di scorgere esitazioni e paure.
Pensa alla speranza di avere un padre nuovo, buono, onesto, che sia di conforto ma soprattutto di esempio. Perché la Chiesa, come l'umanità, è fatta di uomini. E l'uomo buono, che cerca con l'esempio di riformare un sistema marcio, non può essere paragonato a chi, i crimini, li ha commessi in prima persona.
Sì, è ovvio, credo nel perdono dei peccati. Ammesso che ci sia un sano pentimento. Ma non so se riuscirei a perdonare veramente chi, per questioni di potere, cammina sopra i diritti degli altri.
Eppure, da ottimista, penso che un sistema marcio possa riformarsi più dal di dentro che da fuori. Più facendo parte di quel sistema, in maniera attiva, che criticando, passivamente, dall'esterno.
Se ognuno di noi lo facesse, nel suo infinitamente piccolo orticello...

E intanto vivo, penso, leggo.
Così su internet, dai giornali e dalla bocca della gente, vedo e ascolto tante voci diverse.
I sensazionalisti parlano della presunta collusione di Bergoglio con la dittatura argentina, del suo modo agire politico tra i politici. Ma sono già stati smentiti, e a farlo sono noti esponenti anticlericali. Se lo dicono loro. Qualcuno lamenta la provenienza del papa da uno degli stati più misogeni e antianimalisti del mondo. Ma lui rifiuta la stola d'ermellino. C'è poi chi estrapola frasi incredibili dai discorsi dell'arcivescovo di Buenos Aires, come "Le donne sono naturalmente inadatte per compiti politici." Su Facebook ci si chiede se l'abbia detto veramente. Prima o poi lo sapremo. A qualcuno non sembra un papa "stabile", e ironizza "Bergoglio zoppica vistosamente. Dio a Scola: 'Scaldati!'". 
Ma c'è tanta gente, la maggioranza, che ha visto qualcosa di buono negli occhi del nuovo arrivato, nei suoi gesti così poco solenni, nelle sue parole semplici, dirette, emozionate. Qualcuno dice che "Francesco spacca", che "è un genio", che "emana una bella luce", che "somiglia ad Albino Luciani" (il che non può non essere di buon auspicio). Qualcuno, lo riporto per dovere di cronaca, vede in lui il "Papa Nero" di Malachia. Non d'aspetto, ma di toga... (quella dei gesuiti). Che sia davvero lui l'ultimo papa? 

Torniamo ai fatti. 
Fino ad ora, Bergoglio ha vissuto in un piccolo appartamento, ha sempre utilizzato i mezzi pubblici per gli spostamenti. La sua sobrietà è leggendaria. E comunque, durante la dittatura argentina, salvò preti e laici. L'ha fatto.
Di primo acchito, Francesco appare ai più un essere umile, gentile, sensibile. Anche se, innegabilmente, l'unico aggettivo che mi viene in mente dopo aver sentito il nome pontificale che ha scelto, è: furbo. Ma non è una colpa esserlo, semmai un merito.

Francesco. Un nome, un programma.
Perché tutti - in questo momento storico ancora di più - abbiamo bisogno di spogliarci del superfluo.  
Perché il mondo, per la sua salvezza, ha necessità di distribuire equamente le proprie ricchezze.
Perché sulla terra, per sopravvivere, uomini, donne e animali devono riuscire a parlare la stessa lingua.
Magari fosse vera l'intenzione di seguire la strada del santo.

Sarà la storia, come sempre, a dire chi aveva ragione.

© Caterina Somma - Tutti i diritti riservati

James Taylor "parzialmente scremato"

Roma, Auditorium della Conciliazione, 31 Marzo 2012 


Un concerto è un'emozione sempre diversa. Ma ce ne sono alcuni che, oltre ogni aspettativa, regalano qualcosa in più.

Non è la prima volta che assisto ad un concerto di James Taylor, la cui musica è stata, è e sarà sempre, parte integrante della colonna sonora della mia vita; per grandezza, sensibilità e peso specifico; per tutta la sua vita, musicale e non, complicatissima e non, intrisa in ogni brandello dei panni che si porta addosso e in ogni nota che esce dalle sue chitarre e dalla sua gola.

Ieri sera era lì, con indosso più o meno quello che si mette quando esce di casa ogni mattina, la scaletta scritta a mano con il gesso bianco su una lavagnetta nera. Scenografia praticamente assente. Ma tanto chi la guarda...

Gli occhi, le orecchie e il cuore sono per lui e per il suo suono acustico, in diretta. Per lui che è lì, semplicemente, nessun ear-monitor lo separa dagli umori della folla. E in punta di piedi si regala agli altri che lo ricambiano con gli applausi e con un silenzio fatto di rispetto e di un amore, tangibilmente reciproco, di un pubblico senza nazionalità, che lo tratta come l'amico della porta accanto. Cosciente, però, del fatto che lui non è semplicemente uno che fa musica, lui è musica.


La gente lo sa, e lo ama perché è così, per la sua forza ma soprattutto per non aver mai avuto vergogna delle sue umane debolezze. E gli crede sempre, pure quando dice che ama Roma e che qui si sente a casa, aggiungendo che "non è tanto per dire...". E a dimostrazione della confidenza che ha acquisito con la città eterna, pronuncia con orgoglio, scandendo bene ogni parola in italiano, "PARZIALMENTE SCREMATO". E' pur sempre un americano a Roma...
Tutti ridono. Il suo umorismo lo conosciamo bene. E chi lo conosce, immagina che il suo cappuccino preferito sia in linea col suo modo di prendere la vita nella maturità: gustandola tutta, prendendo il meglio e scansando, nei limiti del possibile, quello che può far male.

Dal buio, una voce sgraziata, con accento più che romanesco, gli strilla "Messssico!"... E lui solleva da terra la lavagnetta e conta quanti brani ci sono ancora prima di quello, pregandolo di pazientare. Continua ad eseguire diligentemente tutti i suoi pezzi poi, dopo una sola uscita dal palco (assieme alla moglie-corista che sembra intimidita, sia di cantare ad un passo da Piazza San Pietro sia, e ancor di più, di cantare su quelle tavole insieme a lui), ringrazia, si inchina, saluta con la mano.
I musicisti (Jeff Babko, piano; Jimmy Johnson, bass; Steve Gadd, drums - non si può non nominarli) escono, si spengono le luci, e mentre i tecnici cominciano a smontare gli strumenti Taylor, da antidivo, si avvicina al suo pubblico, ginocchia piegate sul bordo del palco, per firmare per più di mezz'ora centinaia di autografi, sorridere, farsi fotografare. Da romani e non, che si avvicinano e gli dicono semplicemente "Ciao".

Tra penne e foglietti d'autografi, ho allungato la mano per stringere la sua, e l'ho semplicemente ringraziato, dal più profondo del cuore. Non avevo null'altro da dire. E lui, cercando e poi ricambiando il mio sguardo per dare un volto ad una voce, mi ha risposto: "... sono io che dovrò sempre dire grazie a voi".

Se c'è qualcuno che non ha capito perché io ero lì, e perché lui è ancora qui, attraverso mezzo secolo di storia e di carriera, alzi la mano.
© Caterina Somma - Tutti i Diritti Riservati 

Thank you, Steve

 The best medicine...

Anno 2011: cosa ci riserva?

Provate a sommate le ultime due cifre del vostro anno di nascita agli anni che avete compiuto o compirete quest'anno: la somma darà sempre 11. Una casualità sufficiente ad accendere la scintilla della curiosità nella mente di numerologi, esoterici, cabalistici. Gli appassionati di misteri sono certi che nel 2011 accadrà qualcosa di incredibile…

Trovare una ragione, una giustificazione logica o quantomeno matematica a fatti sconvolgenti della nostra vita è un'esigenza umana, del tutto comprensibile. Diventa più digeribile accettare un grave fatto di cronaca (come l'attacco alle Torri Gemelle di New York nel 2001, ad esempio), una guerra o una catastrofe naturale credendo che dietro ad essi si nasconda un significato mistico. Pensare che il nostro destino sia già scritto ci aiuta ad accettare l'ineluttabilità degli eventi.
L'introduzione ci sembra necessaria accingendoci a parlare dell'argomento in oggetto: l'anno in cui stiamo vivendo, il 2011, che secondo gli appassionati di numerologia nasconderebbe un mistero da decifrare. Mistero, avvertimento, profezia? Chi più ne ha più ne metta. Andiamo con ordine.

Perché Sanremo è Sanremo

Siamo in piena settimana sanremese, lunga parentesi di costume che con orgoglio e prepotenza, propri di chi possiede una vecchia patente autenticata, si prende il lusso di spingere nelle nostre case, e dalla porta principale, una valanga di segnali da cogliere, che la dicono lunga sull'Italia che cambia.
Non cambia mai questo Festival (e guai a toccarlo!) che, indiscutibilmente lungo e annoiante, regala però almeno una volta l'anno, una preziosa full-immersion nella cultura del nostro paese, che le "povere" canzoni hanno il merito, e anche il grave peso, di veicolare al pubblico, loro malgrado. Canzoni che, ahimè, dovrebbero avere ruoli da protagonista, e che invece restano quasi sempre in secondo piano, vuoi per la mediocrità delle proposte, vuoi per tutto quello che le sovrasta. Povere canzoni, schiacciate dal gossip, dalla moda, dalla politica.
Sanremo può. E lui lo sa. Ma grazie a Dio, nel suo colorato e confusionario circo, trasporta anche qualcosa di buono, ogni tanto.
Ascoltando Benigni, nella sua impeccabile esegesi di un Inno ciclicamente offeso e martoriato, pensavo al buon Alberto Manzi e alla sua "Non è mai troppo tardi", trasmissione televisiva alla quale buona parte parte degli italiani, compresa quella già istruita, deve almeno un grazie.
Non è mai troppo tardi per capire: ben venga se questo avviene attraverso il Festival di Sanremo.
Sarebbe chiedere troppo di illuminarci anche su questioni più complesse? La satira ci provicchia, tanto è satira, le canzoni non ci provano quasi mai, meglio così, per farlo occorre talento e intelligenza, e non tutti i giorni nasce un autore in grado di farlo. Meglio le canzoni da cantare sotto la doccia, quelle che ci riempiono la vita, che segnano le storie, quelle che ci fanno compagnia in una vita frenetica e affollata dove in realtà siamo più soli che mai. Via libera quindi all'amore e ai sentimenti universali, purché siano di ispirazione a prodotti onesti e ben realizzati. Il pubblico non è scemo.
Benvenuto Festival, che ci esalti, e ci ricordi l'orgoglio di essere italiani.
E benvenuto anche a te, Festival che ci fai cadere le braccia, perché ci fai rendere conto che in Italia certe cose non cambiano mai.

Alberto Manzi (1961)

I cileni conoscono Alfredino?

Stanno uscendo. Uno alla volta, i minatori cileni intrappolati nelle viscere della terra da oltre due mesi, con la calma indispensabile ad operazioni del genere. Mentre scrivo sono a quota 9 e, ora dopo ora, aspetto che il conto arrivi a 33, cifra fatidica che ha scatenato i patiti di numerologia (uguale alla somma delle cifre della data del salvataggio 13-10-10) e che rievoca pensieri biblici, alimentati dalle dichiarazioni del secondo dei minatori a rivedere la luce del sole, Mario Sepulveda: "Sono stato reclamato da Dio e dal diavolo, hanno combattuto e alla fine Dio mi ha vinto".  

Ma noi italiani, questa passione l'abbiamo già vissuta. Quasi trent'anni fa. Nessuno di quelli che, increduli, hanno assistito in diretta all'agonia di Alfredo Rampi, riusciva a immaginare quello che sarebbe avvenuto. La sua voce era lì, solo ottanta metri più in basso, in quel pozzo maledetto. E poi il silenzio. Non riuscivamo a spegnere la televisione. Non potevamo accettare una fine così.

Ventinove anni dopo riviviamo quell'incubo, e ad ogni minatore che risale in superficie risale anche un pezzetto del sorriso di Alfredino, lui che non ce l'ha fatta e che certo starà assistendo a questo salvataggio, guidando i passi e le mani di chi lavora per fare il miracolo.

Tirare fuori. Dal profondo.
Necessita di tanto tempo, è faticoso, fa male.
Occorre pazienza, volontà, aiuto.
Ma quando qualcosa comincia ad uscire, il processo è inarrestabile.
E tu non sei più quello di prima. O forse torni ad esserlo.
Un giornalista. Diventarlo non era nei miei piani, esserlo però mi ha sempre dato gioia ed orgoglio. Quasi sempre. Ma non in sere come questa.

Lavorare sulle notizie, essere pagati per parlare di quello che succede nel mondo, non è gloria, non è forza, non è superiorità. E' lavoro. Un lavoro che è soprattutto un dovere. Un dovere che ha, o dovrebbe avere, chiunque ha il potere di far vedere ad altri, con i propri occhi, la realtà che ci circonda. Così come la cronaca, specie quella nera, non è spettacolo. Non è quello show ignobile a cui assisto ogni giorno.

Questo lavoro, invece, diventa spesso un vantaggio per fare una buona carriera, una spinta per guadagnare più soldi e un contratto privilegiato, un mezzo per ottenere ancora più potere di quanto già se ne abbia. Che, se ottenuto così, inevitabilmente sarà un potere malato, in grado di fare male, ancora di più e sempre di più.
Che carriera. A quale prezzo e con quale cuore è possibile farla.

Stasera quella disgustosa macchina mediatica che è oggi la televisione mi fa orrore. Mi fa schifo la tv della dolore, e mi fa schifo l'enorme quantità di persone asservite alla legge dei numeri, a servizio della conquista dello share. Colleghi che si sentono costretti a fare scalpore, per scongiurare il rischio di fare la valigia in caso di inadempimento (tanto di chi è disposto a farlo c'è una lunga fila), persone che che per giustificare le proprie colpe si nascondono dietro ai doveri di una presunta televisione di servizio. Che però - ma guarda un po'! - è sempre sotto la legge del dio share. Che potrebbe anche essere l'unico obiettivo di un'azienda, ma non può essere "l'obiettivo". A scapito della dignità dell'uomo.

Si può perdonare, perché non sanno quello che fanno?
No. Perché lo sanno.

Uno l'abbiamo trovato!

Stavolta dicono sia proprio vero! Un altro pianeta compatibile con la vita l'hanno trovato veramente.
E' roccioso, abbastanza grande (4 volte la terra) e un po' freddino (la temperatura media di superficie oscilla fra i -31 e i -12 gradi centigradi), ma ci si può andare. Si trova a soli 20 anni luce dal nostro sistema solare.
Nonostante sia nella costellazione della Bilancia, non sembra però molto... poetico.
Già dal nome. Si chiama Gliese 581g. Impiega solo 37 giorni per fare il giro intorno ad una Nana Rossa (noi abbiamo IL SOLE, sigh). E attorno alla nana girano solo altri 5 pianeti (in caso di trasferimento, sarebbe da rivedere tutta la materia astrologica!).
A occhio, sembrerebbe andar bene per eremiti eschimesi in cerca di rapide, mezze stagioni, da vivere in assoluto silenzio...

Però sarebbe ottimo per spedirci - con biglietto di sola andata - quelli che sputano sulle bandiere, che fischiano gli inni nazionali o che tirano scarpe in Parlamento.
E a tutta un'altra serie di animali, di cui mi riservo di suggerire il nome in un secondo momento.

Cocaina

Chissà perché questa è una di quelle parole che fanno tanto clamore.
Io non la uso e non la userei perchè ho paura di perdere il controllo, ho paura di star male, perché non voglio nuocere ad altri e, soprattutto, perchè non voglio alimentare il suo mercato. Io no.
Ma non capisco perché faccia tanto effetto sapere chi e quanti, non capisco la morbosità relativa a chi la consuma, il disgusto e il disprezzo, almeno apparente, da parte dell'opinione pubblica, verso chi ha deciso di fondersi il cervello, per scelta. Come se, per farsi un'idea di qualcuno, si debba frugare nel suo guardaroba o nel suo frigorifero.
Quando guardavo giocare Maradona non pensavo alla droga che si faceva, quando vedo un Van Gogh non mi chiedo se le sue allucinazioni erano naturali, quando canto un pezzo dei Beatles non sto lì a chiedermi se è stato partorito prima o dopo aver fumato chissacché.
Affaracci loro. 
Il problema è un altro.
Morgan non è John Lennon, Elisabetta Canalis non è Marilyn Monroe.
Se Elvis è morto soffocato dalla sua bulimia, per me è stato strangolato dalla fame di successo.
Se Michael Jackson è morto per un sonnifero di troppo, per me è non si è più svegliato per la paura di ritrovarsi solo con se stesso.
Che usassero o meno la droga, secondo me, è qualcosa che lascia il tempo che trova.



vincent van gogh - wheat field under clouded sky (1890)

Er popolo se vo' fa' sentì!

I mondiali di calcio sono un appuntamento estivo che nessuno può né vuole schivare completamente. L'amor di patria (ma forse di più l'amore per il pallone) ci impone di sederci davanti allo schermo per fare il tifo per gli Azzurri, così come ci sentiamo quasi obbligati, il 2 Giugno, a dare uno sguardo al cielo di Roma per cercare di avvistare le frecce tricolori. Un orgoglio.

Sono italiana e me ne vanto. Insomma, non me ne vergogno. Adoro questo paese e la mia città, quando me ne allontano troppo a lungo mi manca l'aria e riprendo a respirare quando riabbraccio smog e monumenti, epiteti e parolacce, tramonti e sguardi, gatti e umanità varia, che a Roma vivono gli uni a contatto degli altri in fraterna, totale, millenaria sopportazione. E orgoglio.

Nessun paese al mondo è così.

I Mondiali di calcio, però, vanno oltre l'orgoglio nazionale. Sono un evento la cui eco si diffonde in lungo e in largo, in basso e in alto, dentro la testa e nei cuori.

Puntuali, al primo incontro dei Mondiali, tutti abbiamo acceso la tv. E tutti, ma proprio tutti, abbiamo provato un terribile fastidio per quell'odioso frastuono che, incessantemente, ci tiene compagnia per tutta la durata della partita. Eppure lo sapevamo. Lo sapevamo che le vuvuzelas facevano tutto quel rumore...

I corni di plastica, simbolo della tradizione calcistica sudafricana, non piacciono a nessuno. I calciatori si distraggono, i tifosi non si godono la partita... Nonostante le lamentele ufficiali, la FIFA non può intervenire. Giusto. Io - sarò antica - al secondo incontro ho abbassato l'audio della tv e ho acceso quello della radio. Da lì, le trombette africane non danno tutto quel fastidio. La partita me la godo lo stesso. E ho smesso di lamentarmi.

Eppure, con mio grande stupore, c'è tanta gente che... corre a comprarsele. Non volevo credere ai miei occhi. Il 18 giugno, fila di un'ora, a Milano, per accaparrarsi quelle offerte gratuitamente dell'ente del turismo sudafricano (alla South Africa House, in viale Monte Nero - date un'occhiata a questo link).

La mattina seguente sono sull'autobus, in via del Corso, e sento le famose trombette. Fastidiosissime. Ma chi le suona? C'è una manifestazione davanti a Montecitorio. E i manifestanti sono lì, con striscioni, catene e tamburi ma, soprattutto, con tutto il fiato che hanno per soffiare la loro rabbia dentro a quelle trombe. Ho capito.

Le vuvuzelas non le sopporta nessuno perciò...  sono ottime, per fare casino.
Avranno un gran successo.

Esplosioni

La marea nera uccide i pesci, travolge l'economia degli stati del golfo, offusca l'ottimismo del governo democratico.
Un'esplosione (un'altra?) di una piattaforme che, da sola, in una sola notte, mette in crisi l'ecosistema, l'economia e la politica di un'intera nazione. Non solo.
Perché il mondo è uno ed è di tutti, e questo l'abbiamo capito in una sola volta, dopo l'esplosione di quel grattacielo, quel maledetto 11 settembre.

Prima, sembravamo non accorgercene. Poi, il dolore e la morte, come sempre, hanno portato a livello cosciente, e non solo di pochi eletti, la consapevolezza dell'unicità dei rischi, degli svantaggi e dei limiti, di una esistenza al limite del lecito, di un destino globale che decide, per tutti, in una sola volta.

Un'esplosione naturale, che ha generato la vita sulla terra.
Un'esplosione artificiale che, con il potere dell'infinitesimamente piccolo, ha segnato la vita di infinite generazioni.
Un'esplosione innaturale di una piattaforma petrolifera, che fa danni ad un ecosistema che, altrimenti, si sarebbe mantenuto in equilibrio per secoli.

Sì, è vero, ci sono anche esplosioni fantastiche, che generano sensazioni uniche: di colori, di risate, di gioia.
Anche queste, però, esauritesi, lasciano il buio, il silenzio, il vuoto.

Equilibrio - boato - mancanza di.
Tutto qui.

Più o meno come il boato di un licenziamento, che segna l'attimo che passa tra una una vita dignitosa e una miracolosa.
Come il boato di un dolore, che separa la salute dalla malattia.

Solo che, a differenza del petrolio estratto a forza dal mare, che distrugge un oceano e tutto quello che lambisce, della fuoriuscita dell'energia vitale che segna per sempre l'esistenza di un solo individuo, si cura soltanto chi la sta vedendo scorrere via.

Eppure è come sopra.
Uno squilibrio va sempre a danno di tutti.
Non ci sono sopravvissuti, non ci sono vincitori.
Quando un pezzo del puzzle viene a mancare, il quadro non è più lo stesso.

La soluzione? Innalzare i limiti

Uno studio condotto dalla American Association for Cancer Research dichiara che una manciata di pistacchi al giorno potrebbe aiutare a prevenire l'insorgenza di tumori al polmone.
Grazie all'elevato contenuto in acidi grassi della serie omega-6, ad effetto ipocolesterolemizzante, i gustosi frutti secchi si sono dimostrati anche una fonte particolarmente concentrata di preziosi antiossidanti, in particolare di gamma-tocoferolo (una forma di vitamina E). Le stesse proprietà le avrebbero noci, nocciole, arachidi ed semi di soia. E allora? Mangiamo tutti più frutta secca, stando attento a non esagerare con la quantità (altrimenti ingrassiamo a vista d'occhio e allora addio benefici).
Ma...

Per incoraggiarci ad aumentare il consumo di frutta secca, ci viene incontro la Comunità Europea, la quale, stamattina, sottopone all'esame del Parlamento una proposta di innalzamento (anzi un raddoppiamento, per la precisione) dei limiti delle aflatossine consentite nella frutta secca (trattasi di "normale adeguamento a quanto in materia dispone di Codex Alimentarius", ente creato nel 1963 dalla FAO e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità per il controllo degli standard alimentari). Le aflatossine sono sostanze tossiche prodotte da muffe che possono trovarsi in diversi cibi, in special modo quelli secchi, dalle potenziali proprietà cancerogene.
Gli esperti italiani dell'Istituto Superiore di Sanità hanno espresso un parere contrario all'ipotizzato innalzamento dei limiti (che non solo metterebbe a rischio la salute dei consumatori, ma danneggerebbe gli agricoltori nazionali impegnati a garantire la qualità della produzione in Italia, leader europea nelle coltivazione di nocciole). Il più grande produttore mondiale di nocciole - ci ricorda la Coldiretti - è la Turchia, che produce il 78% delle nocciole importate in Europa. Importazioni con grossi problemi di contaminazione da aflatossine.

Se non mangiate noccioline e nemmeno Nutella, né biscotti, wafer, merendine, barrette energetiche, muesli e nemmeno yogurt, allora la cosa non vi riguarda.
Vi riguarda però l'aria che respirate.
Che c'entra?

Sembra che innalzare i valori "tollerabili" dei vari inquinanti sia l'unica risposta all'aumento dei veleni nell'aria che i nostri polmoni inglobano quotidianamente. Tant'è che anche il clima si adegua alle nostre "soluzioni" e "propone" l'innalzamento della temperatura globale. In modo più serio di noi.

Body scanner



Negli anni '70, era il sogno di tanti adolescenti riuscire a possedere gli occhiali a raggi X, visti sulle pagine pubblicitarie dei giornali a fumetti, che riuscivano a farti vedere il corpo delle donne sotto i vestiti. Nessuno aveva i soldi per comprarli e chi lo aveva fatto, e aveva quindi scoperto che non funzionavano affatto, si sarebbe vergognato talmente tanto ad ammettere di esserci cascato come un pollo, che se ne stava zitto, facendo sì che il mito degli occhiali si rafforzasse sempre più, perdendo forza solo grazie al tempo che passava, e portava, insieme all'età adulta, un po' di sale in zucca. Ma sono in molti quelli che hanno conservato, nel loro inconscio, la magica illusione che qualcuno, prima o poi, gliene avrebbe regalato un paio di quegli occhiali, un paio che funzionasse davvero...

L'inventore dei body-scanner di cui, presto, verranno dotati gli aeroporti, deve proprio essere uno di quelli. Come sono sicuro che sono tra quelli, molti di coloro che non vedono l'ora di utilizzarli.
Inventare un apparecchio che fornisce un'immagine 3d del tuo corpo, nudo, in grado (ma questo diventa marginale) di scovare oggetti metallici, polveri, proiettili e persino capsule di esplosivi eventualmente ingerite dall'individuo: che meraviglia!

Peccato che tra i passeggeri in volo nei cieli del mondo, si nascondano pochissime di quelle donnine di cui sognavano di vederne i contorni. Peccato che di donne bellissime, dalle curve mozzafiato, siano già pieni gli schermi televisivi, le pellicole dei film, le pagine delle riviste e, senza guardare lontano, le spiagge d'estate, così come le palestre d'inverno.

Perché qualcuno, oggi, dovrebbe aver voglia di spogliare una donna cone gli occhi? Al povero maschio di oggi, dopo avergli mostrato il visibile e l'invisibile del corpo femminile, non resta che sognare altro. E come lamentarci se, in quell'altro, ci sono corpi diversi da quelli delle donne comuni, troppo sbattuti in faccia? Corpi non comuni che, fino a qualche anno fa, ci si guardava bene dal dichiarare, figuriamoci dall'esibire.
Come un enorme schiaffone morale alle femministe di ieri, quegli individui che la natura ha dotato di attributi incerti o di ormoni in surplus, oggi si prendono la rivincita. E con orgoglio e forza insospettabile, riescono ad attrarre uomini come mosche, che gli si appiccicano sempre più, pur di non vedere sempre e solo mogli e compagne in carriera che affidano i figli a baby-sitter che parlano un'altra lingua, comprano verdure già tagliate e pulite, frequentano chirurghi estetici che regalano loro un corpo di donna ancora più perfetto. Per una donna perfetta, sotto tutti i punti di vista.
Mentre i loro uomini, nel frattempo, vanno in cerca di corpi non perfetti.
Che, ironia della sorte, sembrano anche aver un cuore che sa ascoltare...

Non vedere, non sapere



 foto da internet


Veline & calciatori, deputati & trans, magistrati & tv.

Non pensavo a queste cose quando decisi di mettere al mondo un figlio. L'entusiamo, l'amore per la vita, la voglia di essere donna e dar frutto anche alle mie potenzialità fisiche oltre che mentali erano talmente preponderanti su dubbi e timori, che non ebbi alcuna esitazione, eccezion fatta per quelle di natura medica (delle quali, sinceramente, me ne sono sbattuta altamente).
Così, mettendo a parte gli egoismi e le paure che, tuo malgrado, entrano in gioco quando inizia la partita, ho lasciato che la natura compisse il suo corso.

Oggi ascolto, ma non comprendo, le donne che hanno paura di soffrire di parto, quelle che hanno paura di vedere il proprio corpo trasformato, quelle che non vogliono passare in secondo piano agli occhi del proprio compagno (o peggio dei loro genitori), quelle che rinunciano o rimandano in nome una carriera professionale senza intoppi, quelle che, tutto sommato, pensano che alle brutte un figlio lo possono anche adottare...
Ora che sono madre, ascolto ma non comprendo, quelli che cercano di farti vedere come tutto, ma proprio tutto, non funzioni, come il sistema sia bacato al suo interno, come sia inutile e inconsistente il tuo modo di vedere e di muoverti in un mondo in cui regna l'interesse personale e la brama di potere e che ti ignora, se non sei in grado di contruibuire a far muovere gli ingranaggi.
La gioia di generare è quella di un pittore che finisce la sua tela, di uno scultore che deve dare forma alla creta, di un musicista o uno scrittore che danno senso compiuto ad un mucchio di note e di parole. Con il compito gravoso - enorme e spaventoso - di dover dare un senso a quello che hanno creato: formargli una testa per pensare e gambe forti per andare, una mente lucida per discernere e un cuore grande per capire e perdonare. Ogni madre vorrebbe riuscire a dare questo ai propri figli.

Ma il lavoro manca. E decenni di studi non bastano a garantirtelo, mentre le veline ballano solo per un lustro e poi si godono ripetute vacanze ai tropici pagate da un assegno di mantenimento dell'ex coniuge asso del pallone. Questo non si può spiegare ad un figlio.

Nel terzo millennio, incredibile a dirsi, non c'è educazione che ti garantisca rispetto, non c'è morale che ti assicuri onestà. Regole, principi, leggi: perché applicarle o peggio insegnarle?
La risposta, tutto sommato, è semplice. L'unica cosa che può salvarci è una testa che funzioni. Può salvarci? E in quanto tempo? Ma che ne so... Di certo so che la capacità di giudizio è l'unica cosa che una madre dovrebbe aver cura di insegnare ai propri figli.
Essere in grado di pensare con la propria testa. Già.
Ecco perchè i valori etici e morali andrebbero comunque inculcati (sì, volevo proprio usare questo termine), non tralasciando il piccolo particolare di crederci e di dare pure il buon esempio, ovviamente. Vedere per capire, ascoltare per imparare, pensare per distinguere. Scegliere per vivere.

Se solo si avesse il coraggio di scegliere per vivere, e non per sopravvivere.

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