Un giornalista. Diventarlo non era nei miei piani, esserlo però mi ha sempre dato gioia ed orgoglio. Quasi sempre. Ma non in sere come questa.
Lavorare sulle notizie, essere pagati per parlare di quello che succede nel mondo, non è gloria, non è forza, non è superiorità. E' lavoro. Un lavoro che è soprattutto un dovere. Un dovere che ha, o dovrebbe avere, chiunque ha il potere di far vedere ad altri, con i propri occhi, la realtà che ci circonda. Così come la cronaca, specie quella nera, non è spettacolo. Non è quello show ignobile a cui assisto ogni giorno.
Questo lavoro, invece, diventa spesso un vantaggio per fare una buona carriera, una spinta per guadagnare più soldi e un contratto privilegiato, un mezzo per ottenere ancora più potere di quanto già se ne abbia. Che, se ottenuto così, inevitabilmente sarà un potere malato, in grado di fare male, ancora di più e sempre di più.
Che carriera. A quale prezzo e con quale cuore è possibile farla.
Stasera quella disgustosa macchina mediatica che è oggi la televisione mi fa orrore. Mi fa schifo la tv della dolore, e mi fa schifo l'enorme quantità di persone asservite alla legge dei numeri, a servizio della conquista dello share. Colleghi che si sentono costretti a fare scalpore, per scongiurare il rischio di fare la valigia in caso di inadempimento (tanto di chi è disposto a farlo c'è una lunga fila), persone che che per giustificare le proprie colpe si nascondono dietro ai doveri di una presunta televisione di servizio. Che però - ma guarda un po'! - è sempre sotto la legge del dio share. Che potrebbe anche essere l'unico obiettivo di un'azienda, ma non può essere "l'obiettivo". A scapito della dignità dell'uomo.
Si può perdonare, perché non sanno quello che fanno?
No. Perché lo sanno.
0 comments:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.