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Il linguaggio del genitore

Il mestiere del genitore è un lavoro a tempo indeterminato. Che ha inizio e mai fine, nemmeno quando pensi che l'unica soluzione sarebbe dare le dimissioni. È un mestiere per cui nessuno ti ha mai formato e quello che hai potuto imparare dagli esempi altrui ti serve a poco e niente.
Ogni genitore parla un linguaggio a sé, con grammatica, logica e fonemi diversi, che variano anche da figlio a figlio. Pressoché inutile il confronto con altri genitori. Le lingue sono infinite, tutte ostiche ed enigmatiche, che non appena pensi di aver imparato a livello base ti cambiano sotto gli occhi, mettendo in crisi la tua adultità. Che ha la caratteristica di perdere via via l'elasticità necessaria a cambiare marcia. Che comunque cambi.

Il linguaggio del genitore deve necessariamente comporsi di elementi diversi. Le parole sono la facciata del palazzo. Che può essere splendida in un edificio che nasconde irreparabili difetti di costruzione oppure anonima, di un palazzo solido e durevole. Facciata la cui interezza dipende pure da quali e quante intemperie è esposta nel corso del tempo, molte delle quali sono i figli stessi a produrre. Sarebbe bello se i pargoli lo capissero che le loro saette sono in grado di radere al suolo un grattacielo di 100 piani. Forse conserverebbero i dardi nella faretra in attesa di un bersaglio quanto meno più meritevole di esserlo. Ma questo non accade quasi mai.
Il genitore nasce analfabeta, al limite balbuziente, e il suo linguaggio cresce al crescere del prodotto generato. E anche se col trascorrere del tempo impara sempre nuove parole resta infantilmente affezionato a quei termini che gli sembra funzionino meglio. Quelli che magari saranno la causa del denaro che spenderà più avanti per la psicoterapia dei figli. Ma vallo a sapere prima.
Man mano che i ragazzini crescono gli adulti cambiano pelle, alternando la comunicazione autorevole a quella fraterna a quella amicale. E la maggior parte delle volte che aprono bocca subito dopo vorrebbero essersela mozzicata quella lingua impaziente e inopportuna. Ma se ne accorgono sempre un po' troppo tardi.

È da un po' che non faccio altro a suggerire ad una figlia di andarci piano. Come pensare di far sorvolare i continenti ad un aereo solo soffiandoci sopra. Eppure io lo so cosa voglio dire.
Vorrei far capire ad un essere che mi somiglia e che si fa tanto male ogni volta che sbatte la testa cosa scongiurerebbe se solo praticasse un po' di pazienza e imparasse a godere dell'attesa.
Io dico "Rallenta" e lei mi risponde senza parole, con sguardo implorante, che proprio non si può a vent'anni andarci coi piedi di piombo. E io questo lo so, perché sono andata molto più veloce di lei, molto prima di lei. Ma, contrariamente a lei, io avrei voluto tanto che qualcuno mi fermasse. Perciò insisto. Dalla gola e attraverso gli occhi cerco di passarle il mio concetto di andar piano. Mi sforzo, ma non riesco. E quando lei si allontana sento il monologo che avrei voluto fare. "Non sai cosa vuol dire??? Ma sì che lo sai! Hai la patente, no? Guidi da anni ormai. Cosa hai modo di fare quando vai piano? Dimmi una serie di cose che puoi fare guidando piano! Non lo sai? Te lo dico io. Puoi essere più attenta a quello che ti accade intorno, puoi concederti un sguardo al panorama, o una fermata per sgranchirti le gambe oppure, che so, puoi cantare mentre guidi. Di certo puoi goderti di più il viaggio. E se sei partita per tempo puoi anche evitare le ansie dei ritardi e non lasciare che nessuno rimanga per strada ad aspettarti". 

Il monologo è bello. Ma tu sei e resti sempre un genitore. Che per questioni anagrafiche ne ha viste tante. Ne ha passate tante. Come quando essendo fortemente in ritardo sull'orario di partenza e decidi di prendere l'auto anziché il treno diretto per la stazione di Bologna Centrale la mattina del 2 agosto 1980. E per quella fretta, di ieri, di arrivare, oggi sei qua a raccontarlo. E sei diventato genitore. Con un idioma quasi incomprensibile per i tuoi figli.
Forse, meglio così.


Sorrisi impress ionanti

Dopo essere stata tempestata di telefonate e messaggi per ricordarmi l'appuntamento, precisare l'indirizzo, preoccuparsi della mia puntualità e del fatto che avessi o meno trovato facilmente parcheggio, eccetera eccetera, arrivo alla visita. Puntuale.
Ho preso appuntamento presso uno studio dentistico, che in realtà di medico ha molto poco. In un turbinio di luci, colori e paillettes, mi sembra di essere entrata in una casa di tolleranza. Segretaria pin-up con trucco da show girl, sandali gioiello tacco 12 (è dicembre), merce abbondante (gradevole per carità) in bella mostra, che mi accoglie senza sorriso. Forse il trattamento che mi riserva è dovuto al fatto che sono vestita a caso, diciamo casual va', e strido con la fauna lì presente, tirata a lucido. Mi fa accomodare in un ingresso-sala d'attesa piena di Babbi Natale appesi ovunque, tra diffusori di essenze che emanano nuvole di vapore e musica natalizia diffusa mono che si ripete in continuazione.
"Accomodare" si fa per dire, perché il divano è occupato da tre/quattro fanciulle fatte più o meno con lo stesso stampino della segretaria che masticano rumorosamente gomma americana mentre sguardo fisso ai cellulari ignorano il fatto che stanno occupando tutte le sedute disponibili con cappotti, borse, shopper e oggetti vari, come se il divano fosse solo loro.
Nel corridoio che ho davanti c'è un bel via vai tra porte che si aprono e si chiudono, gente che ride in maniera vistosa e pazienti che escono dalle porte chiuse con buste di ghiaccio sintetico sulle guance e uno via l'altro si infilano nel bagno alla mia destra. Suppongo per smadonnare senza essere visti.
Dopo 20 minuti di attesa in piedi, mentre la pin-up va su e giù per le stanze sculettando a profusione, da una porta esce una dottoressa che chiama il mio nome. Occhio, il nome ho detto, non il cognome. Ma chi ti conosce. La dottoressa, presumo, scusandosi dell'attesa mi dice che porta un po' di ritardo. Le chiedo "Scusi, quanto?", mi risponde "C'è da aspettare almeno un'oretta, mi spiace... non prendo io gli appuntamenti". Penso che magari lesinando chiacchierate e risatine avrebbe potuto dispiacersi meno ed essere più puntuale. Ma a quel punto, sollevata per avere un valido motivo per darmela a gambe, ringrazio, saluto e finalmente imbocco la porta d'ingresso e scappo via, felice di essere finalmente uscita da quella suburra da incubo. Per mezz'ora ho creduto di essere in un film su una realtà distopica, anzi no, sembra Pleasantville. Confesso di essermi perfino guardata in giro per capire se ci fossero videocamere per girare una candid.
Ma quando penso di essere finalmente salva squilla il cellulare: un incaricato del Centro vuole sapere se ho trovato lo studio. Mi assale il dubbio, anzi la quasi certezza, che detta organizzazione abbia a che fare solo con persone deficienti, e se così non fosse non capisco perché trattino i clienti come tali.
Rispondo: "Sì l'ho trovato, grazie, ma la dottoressa portava un'ora di ritardo e sono dovuta andare via". E ometto il fatto di essermi pure traversata tutta Roma per un preventivo mai fatto.
Pessima mossa gente. Pessima pubblicità, quella che volentieri farò.
Tanto gli dovevo. E Buon Natale.




La Gioia

E meno male. Ho visto quello che volevo vedere da tempo. Al di là della violenza che si è acuita nelle persone con scarso equilibrio, che hanno vissuto la pandemia in modo repressivo e punitivo, quello che speravo e credevo si sta verificando. Sono i giovani a farlo. Sono loro che con grinta e follia hanno capito come gestire l’eccesso di energia e convogliarlo, finalmente, in qualcosa di positivo. Lo hanno sempre fatto? No. Generazioni precedenti che l’hanno usato per protesta, per distruggersi, punirsi, combattere una società che non gli corrispondeva, credendo di doverla urlare più forte la loro rabbia per farsi sentire, giustificando a tal fine anche la violenza.
Ma i ragazzi di oggi no. Un secolo di storia forse gli ha insegnato qualcosa.
Hanno imparato che i confini non esistono. Che il diverso è ciascuno di noi. Che non c’è interesse personale senza interesse globale. Ma soprattutto hanno recuperato una cosa che sembrava scomparsa negli ultimi decenni, qualcosa di cui pochi sapevano già l’importanza e la potenza: la gioia.
L’ho vista, l’abbiamo vista tutti in questi giorni, negli sguardi attoniti di chi si stupisce di raccogliere un successo, nell’esultanza di chi non esita ad abbracciarsi e piangere senza aver paura di tradire un sentimento. In chi guarda la medaglia con orgoglio e mai si sogna di togliersela dal collo. In chi canta con la bandiera negli occhi che non è un vessillo di parte ma un motivo d’orgoglio e la memoria degli sbagli. Negli artisti che mettono a disposizione di tutti le loro doti. L’ho vista nell’unica espressione costruttiva che può avere l’energia incanalata, pura, cosciente, usata e sfruttata senza esitazione nell’unico verso possibile per la vittoria e la rinascita.
Spero di vederla davvero la rinascita del mondo, grazie ai giovani, chi altri sennò. Quella definitiva, che lascia a margine tutto quello che abbiamo capito che non paga. Se così sarà, l’onda d’urto sarà in grado di trascinare anche quelle che finalmente diventeranno le minoranze, quelli che non credono, non sperano, non sognano. Che un giorno non ci saranno più, perché saranno accolti, compresi e amati, per quelli che sono.
Ragazzi belli, dategliela una lezione a chi non sa mettersi in gioco, a chi sceglie la comodità invece dell’impegno, a chi ha vissuto tutta la vita all’ombra, a chi si nasconde dietro gli errori di altri, a chi crede che basti un virus mortale per fermare l’evoluzione. Tutto va. Avanti mai indietro. E non c’è futuro per chi non se ne accorge. 




Io sto coi miei

E il vaccino, e la cura, e le prospettive. E i negazionisti, e i no-vax, e quelli che la scienza è sacra. E quelli che magari fossi il primo e quelli che sperano di essere gli ultimi. E i dpcm, e le zone a semaforo, e i banchi a rotelle, e abbasso la moneta. E quelli che ho paura di essere tracciato, e quelli ho paura di essere obbligato. E le percentuali di malati e di morti, e le percentuali di chi se l'è fracassate o di chi s'è già buttato sotto a un treno. Di quelli che hanno perso il lavoro, e di quelli che sanno che non lo ritroveranno più. E quelli che si arrabbattano in rete e sorridono sempre e comunque, che poi quando si spegne la telecamera hanno solo un muro per sbatterci la testa. E quelli di 'che belli tutti 'sti gabbiani in città', che non si accorgono che ce ne stanno tanti perché nelle strade c'è un esercito di mondezza, la nostra, sempre troppa, sempre di più. E quelli che 'hai sentito, ha cantato la civetta', e non sentono una donna che piange. E chi cerca tra le stelle, i sassi, le nuvole. E i funerali, tanti, troppi, di chi è fortunato perchè qualcuno l'ha toccato prima di morire. E tutti gli abbracci che mancano, tutta la fiducia che s'è persa, tutta la speranza che non si trova più. E quelli che chi se ne frega e chi se ne frega troppo, e stanno tutti male, belli e brutti, grassi e magri, malati che non si possono curare, sani che si chiedono se è vero che lo sono davvero e per quanto ci resteranno. E chi pulisce, e chi sporca, chi bestemmia e chi prega. Chi ammette che pensava che le torri fossero l'apice della tragedia, chi pensa che il proprio gatto sia l'extraterrestre che controlla lo sfacelo della razza umana. Chi darebbe oro per due salti in discoteca, chi pagherebbe per fare due bracciate, chi non fa altro che urlare ai quattro venti che la musica dal vivo è un affetto stabile. E manca, come manca tutto quello che serve, quello che serve davvero. E io penso che quelli con cui ho avuto un contatto durante questo tempo sono quelli con cui vorrei avere un contatto per sempre. Quelli con cui non hai bisogno di parlare, quelli che sentono come te, quelli che stavano male già prima della pandemia, che erano in crisi già prima della crisi. Perché percepivano, intuivano, cercavano disperatamente il modo di cambiare il mondo, e se stessi. Io sto con quelli, e con quelli voglio restare, in salute e in malattia, finchè destino non ci separi. E non ho detto morte. Quella è solo una conseguenza della vita.
La dieta la cominciò lunedì, quello nel 2021, e non è per la prova costume della prossima estate. Hai visto mai che prima o poi a qualcuno venga ancora voglia di stringermi tra le braccia. 

Gamberi e tempeste

(Le parole sono una cosa seria)

Chi decide di mettere al mondo un figlio è una persona normale? Secondo me è prima di tutto un grande ottimista. Sarà normale perché la maggior parte della gente lo fa, perché è così che va avanti il mondo, per la continuità della specie, per egoismo, per altruismo... fate voi. Ma chi procrea resta fondamentalmente un ottimista. Perché vede il continuo progresso, spera in un costante miglioramento del comportamento umano, è convinto che s'impari dalla storia e dagli sbagli, che l'intelligenza e la pietas umana vadano verso un futuro sempre più limpido ed entusiasmante.

Hai studiato gli orrori delle guerre, hai visto le rivoluzioni, assistito e partecipato alle manifestazioni, creduto in ideali comuni. Sai cosa condannare e a cosa aspirare, sai che il tuo bene passa dal bene di tutti, che la tua pace passa dal benessere degli altri, pensi di aver superato differenze e ingiustizie. Pensi che anche il resto dell'umanità, nel secolo scorso, l'abbia fatto, come te. Perché non c'è nessun motivo logico perché il mondo invece di andare avanti vada all'indietro. E invece ci va. Come i gamberi.

Hai finito la giornata, accendi la tv, e prima di andare a dormire ti dicono che un uomo reo confesso dell'omicidio della sua compagna si è visto tagliare la pena da trenta a sedici anni perché gli è stata riconosciuta un'attenuante. Quale? La "soverchiante tempesta emotiva e passionale" di cui sarebbe stato preda per gelosia. Le mie orecchie stentano a crederci.
Un'attenuante???

Il mio cervello in questi casi si paralizza per qualche istante, poi comincia a mettere insieme i pezzi, poi vorrebbe farmi essere davanti a quel giudice per spiegargli che ai corsi di formazione per giornalisti gli psichiatri ci fanno due palle così per convincerci che non esistono i "raptus", e che dobbiamo piantarla di usare certi termini nei nostri articoli perché sono inesatti, stupidi, fuorvianti. Ecco signor giudice: se i raptus non esistono e non si possono considerare causa di un delitto, non credo che le tempeste emotive dovrebbero essere nominate. Saremmo tutti assassini. E poi signor giudice, se proprio l'imputato fosse stato colto da suddetta tempesta, questa sarebbe da considerarsi un’aggravante, non una giustificazione. Perché non ripristinare il delitto d'onore? Perchè non rimettere al rogo le minigonne e, visto che ci troviamo, anche libri e giornali?
Però poi il mio cervello si rimette in moto e - come dovrebbe fare quello di chiunque - si documenta.

La pena sarebbe stata ridotta per la confessione spontanea del reo, per il suo comportamento successivo al reato, per la collaborazione prestata nelle indagini e per altre attenuanti previste e disciplinate da articoli del codice penale che non riporto, non per certi termini che compaiono nella sentenza psichiatrica, che parla sì di questa "tempesta", ma considerandolo perfettamente in grado di intendere e di volere non lo giustifica affatto. Tant'è vero che la condanna (giusta o sbagliata che sia) è perfettamente in linea con altri casi simili precedenti. Come a dire che il tribunale non avrebbe fatto favoritismi particolari in questo caso.

Ok ma, per favore... ognuno si prenda le proprie responsabilità.
Nella perizia psichiatrica si legge: "La gelosia provata dall’imputato, sentimento certamente immotivato e inidoneo a inficiare la sua capacità di autodeterminazione a causa delle poco felici esperienze di vita, determinò una soverchiante tempesta emotiva e passionale, considerata idonea a influire sulla misura della responsabilità penale". Questa qualcuno l'ha scritta davvero. Perché, per quanto, e per cosa l'abbia fatto non lo so, ma fossi in lui io me ne vergognerei. Che si prenda la responsabilità chi, nell'esercizio nel proprio mestiere, usa metodi poco ortodossi. Che si prenda la propria responsabilità chi si preoccupa più di far clamore che di dire la verità.

Esco dai meandri di argomenti complicati di cui non ho dimestichezza.
Il mio cervello si alleggerisce e torna a pensare a cose più semplici. E si pente di aver sorriso nel leggere l'articolo della figlia sul giornalino scolastico, solo il giorno prima, riguardo l'8 marzo. Si pente di aver pensato che manifestare per certi ideali, nel 2019, fosse roba superata. Pensa che siamo noi gli sbagliati se abbiamo smesso di credere che lottare per le cose in cui crediamo abbia un senso.

Ecco perché la gente mette al mondo i figli: perché i giovani, a naso, sanno sempre dove andare, e quando perdi la strada sono loro ad indicartela di nuovo.

@Caterina Somma 



Fonti: 


  • giurisprudenzapenale.com -  https://bit.ly/2SKzRVo
  • ilfoglio.it - https://bit.ly/2NG95fZ
  • la sentenza: https://bit.ly/2EAAUSC


     
  • C'era una volta il Festival di Sanremo


    Mi sono alzata tardi e aprendo gli occhi mi accorgo di essere terrorizzata dal ricordo di questo Sanremo 2016, tra i più orribili, inutili, noiosi e fastidiosi di tutta la mia vita. Il sorriso stampato sulla faccia lampadata poco esemplare di Conti, tronfio per lo share da trionfo*, mi appare continuamente davanti e faccio fatica a scacciarlo. Anche Renato Zero ieri sera era senza voce, scollato e disturbato. E il fastidioso Conti gli ha rovinato pure il "Non dimenticatemi, eh" tipico delle sue uscite di scena, richiamandolo sul palco per correggere l'errore fatto sulla data di uscita del suo nuovo album.
    Scaccio continuamente anche le immagini dei bouquet diversificati a seconda del sesso degli ospiti e mando indietro quelli maschili zeppi di simboli fallici. Poi dici che Fiacchini l'ha lanciato al pubblico.

    Intontita da cinque serate che avrei potuto sinceramente evitare, continuo a non capire come uno spettacolo del genere possa avere ancora un consenso comunque ampio. E penso che vedere Sanremo oggi è come comprare i regali di Natale ai parenti: pratica "tradizionale" per i buontemponi, "consumistica" per i credenti. Definizioni a parte, sciarpe e profumi firmati sotto l'albero sono tristi come questo triste festival, una vera disdetta per chi ama la musica.

    Non è nostalgia, non sto invecchiando. E' che onestamente, considerate le scelte di produttori e discografici di oggi, c'è poco da portare a Sanremo e si pesca in un mare di nulla. Dovesse continuare così preferirei venisse soppresso. In tal caso, un giorno potrei a raccontare raccontare ai miei nipoti una favola che inizia così:  
    "C'era una volta il Festival di Sanremo... Dove Zucchero e Vasco Rossi arrivavano ultimi, ma c'erano. Dove Dalla e Battisti guadagnavano sì e no la metà della classifica. Ma c'erano stati. Dove se qualcuno sbagliava gli attacchi o steccava malamente tu ti dispiacevi della brutta interpretazione perché il pezzo era proprio bello. Dove le vallette pensavano a incorniciare la bellezza di un'ingenuità di fondo di tutti noi. Dove si accontentava un po' tutti e tutti venivano accontentati. Dove i fiori della riviera riempivano il teatro i colore e di profumi di una Italia bella che produceva musica bella o anche brutta magari, ma bella ugualmente perché partorita per esclusiva necessità artistica, quindi originale e diversa....".  La favola sarebbe lunga, piena di aneddoti e particolari curiosi.

    Se invece il Festival devesse continuare così sarebbe inutile raccontare. Nessuno ci crederebbe mai, anzi, nessuno mi starebbe a sentire. Ecco. Quando le cose non hanno più motivo di esistere dovrebbero solo essere gettate via. Ma vaglielo a dire alla Rai e al Comune di Sanremo.
    © Caterina Somma


    * Nonostante il successo sbandierato, in realtà lo share relativo all'ascolto del festival è passato dal 68,71% del 1987 (primo anno in cui fu rilevato) all'attuale 49,52%. Se nel 1987 teneva incollati 16 milioni di telespettatori, nelle edizioni del nuovo millennio oscilla tra gli 8 e i 10 milioni. 


    Piazzamenti esemplari
    1969 - Lucio Battisti, Un'avventura - 9° posto
    1972 - Lucio Dalla, Piazza Grande - 8° posto
    1983 - Vasco Rossi, Vita spericolata - penultimo posto
    1985 - Eros Ramazzotti - Una storia importante - 6° posto
    1985 - Zucchero, Donne - penultimo posto
    1986 - Stadio, Canzoni alla radio - ultimo posto
    1988 - Ron, Il mondo avrà una grande anima - 18° posto
    1988 - Raf,Cosa resterà degli anni '80 - 23° posto 
    1990 - Mia Martini, La nevicata del '56 - 14° posto
    2005 - Negramaro, Mentre tutto scorre - subito eliminati

    Sanremo2016, quello che non ho detto su Twitter


    Mi annoio ma non posso non vederlo. Per un po' commento e scherzo con chi mi sta accanto, ma ci stanchiamo presto. Allora mi rivolgo a Twitter che mi fa ridere e condividere odio e amore per quanto sento e vedo. Ma i 140 caratteri non mi bastano, allora eccomi qui a raccontare il mio Sanremo. Quest'anno però non sarò diplomatica, non ho voglia di star lì a giustificare le mie parole.

    Carlo Conti conduce con maestria e disinvoltura, una scioltezza, forse troppa, che azzera la possilità di cogliere in fallo il conduttore, da sempre tra i principali divertimenti di queste lunghe serate. Virgina Raffaele è bravissima, la modella l'ho già dimenticata, Garko è il manichino dal sorriso smagliante di questa 66esima edizione. Sarà rimodellato e impedito ma meno male che c'è, altrimenti non avremmo avuto modo di (s)parlare così tanto.

    In questa sede chiarisco un concetto una volta per tutte. Una cosa è quello che mi piace, altro è ciò che penso che sia funzionale al Festival. Le due cose possono corrispondere oppure no. Di certo quando la notte mi metto in cuffia non ascolto le canzoni di Sanremo. Capita raramente almeno. Detto ciò vado avanti.

    E comincio col dire che la cosa più bella che ho visto finora è stata la performance di Ezio Bosso. Come già twittato, le sue mani ferme sul piano, a dispetto di quella bestia di malattia che si sta impossessando della sua vita, sono un miracolo, quel miracolo che la musica è capace di fare come poche altre cose al mondo. Mi emoziona, mi fa stare bene, mi fa dimenticare tutta la banalità e l'inutilità che ho sentito in queste due serate e che sento spesso in televisione. Mi sono emozionata anche vedendo Elton John e ho sorriso vedendo i suoi polsini con tanto di corona dorata. Ma non ho potuto fare a meno di sentire un vibrato che lui non ha mai avuto e che non mi piace, ma lo amo lo stesso. Ascolto la Pausini che però non mi suscita mai niente. A Ramazzotti che gli vuoi dire? S'è pure dimagrito. Però cantare "Più bella cosa non c'è" rivolto alla sua attuale moglie in platea non si fa. Ha fatto infuriare tutti, se non altro perché ci ha massacrato per anni nel dirci che l'aveva partorita per Michelle. Bah. Gliela passo perché so che l'eleganza non è il suo forte. E perché pure lui è cresciutello e la maturità tutto sommato gli dona. E gli passo pure i ridondanti arrangiamenti di stasera, soprattutto perché mi rendo conto che Eros fa Festival di Sanremo, quella cosa che adesso sembra non esserci più e che rimpiango.
    Il dopofestival è piacevole, nonostante l'ora, perché la Gialappa's non si risparmia e fa da contraltare ai troppi esimi colleghi che il Festival l'hanno sempre preso troppo sul serio.

    Andiamo al sodo. So che c'è chi aspetta i miei tweet per scommetere denaro sul pronostico. Vi deluderò, al momento non so cosa pensare, tranne il fatto di essere sempre più convinta del fatto che in Italia, oggi, mancano proprio gli artisti. Ma che ci vuoi fare. Sanremo s'adda fa comunque per Mamma Rai.
    La prima serata, nonostante avessi letto i testi in anticipo, non sono riuscita a capire quasi niente di quanto promunciato per le prime ore (quando la musica non c'è mi concentro sul testo, sperando di trovare qualcosa per cui valga la pena ascoltare), tant'è che quando ha aperto bocca Arisa m'è sembrato un miracolo. Il testo sarà bislacco e la musica non ha niente di originale, ma lei è brava (pure a scegliere gli orridi vestiti che faranno comunque parlare di lei) e il pezzo si canta. Così come si canta Neffa. E poi mi è piaciuto il pezzo di Rocco Hunt, ma non so quanto conta il fatto che le palpebre stavano calando e la sua canzone è stata la prima, dopo ore, sopra i cento di metronomo. Però credo che funzionerà. Ruggeri mi ha sorpreso, ma non ricordo perché.

    Stasera m'è piaciuta Dolcenera (strano, di solito la ignoro), ma a riempire la scena è stato il placido Beppe Vessicchio che, dopo la latitanza della prima serata, il pubblico del web (e non solo) acclamava a gran voce ed ha accolto come una star. Aspettavo Elio e le Storie Tese per capire come potesse essere un pezzo fatto solo di ritornelli: è proprio come quello che hanno fatto. Geniale ma onestamente inutile. Se vincessero quest'anno sarebbe come ammettere che il Festival è tutta una presa in giro. Ma almeno loro si divertono e se lo possono permettere perché lo fanno bene.
    Spero che i Bluvertigo abbiano fatto altrettanto, perché la performance di Morgan non sarà certo ricordata dai posteri.
    Patty Pravo ha fatto la sua prova. M'aspettavo pure peggio. Ma lei l'annovero tra quelli che ci "devono" stare, altrimenti Sanremo diventerebbe altro. Magari. Ma per merito di chi? I tanti giovani cicciati dai talent mi sono scivolati addosso come gli Zero Assoluto e peccato che in queste occasioni la voce del bravo imitatore Scanu non sia mai sostenuta da quella cosa indispensabile per diventare qualcuno che si chiama personalità. Del pezzo di Noemi mi piace il testo. Dei rapper non parlo perché non sono mia riuscita ad assimilarli al genere "cantante", parlo invece di Irene Fornaciari perché non ho capito perché continua a provarci. Chi manca? Ah, gli Stadio. Non m'ha fatto effetto ma ormai sono passate le due di notte e sono stanca, sinceramente non ricordo.
    So che in generale non riesco più a sopportare chi non riesce a tenere l'intonazione manco sotto tortura. Considerando che stiamo parlando di cantanti sarebbe una cosa auspicabile.

    La cosa più piacevole di queste due serate? Un Frassica distante dalla gara, consapevole e ficcante come sempre, che entra dicendo "Le canzoni sono tutte uguali. Io sono qui solo per conoscere Garko". Come dargli torto.

     © Caterina Somma - Tutti i diritti riservati



    Carpe diem

    Rientro in una delle categorie professionali obbligate ai corsi di formazione, pena l'esclusione dall'Albo.
    A dire il vero, per salvarsi dall'estromissione sono sufficienti quindici crediti l'anno, per tre consecutivi, che vengono facilmente attibuiti dopo solo poche ore di corsi, seminari, workshop gratuiti che l'Ordine organizza in tutta Italia.
    Partecipo con curiosità agli eventi, senza rientrare nella categoria dei colleghi che si siede all'ultima fila e passa quattro ore consecutive a chattare su Facebook in attesa che suoni la campanella e si possa finalmente mettere la firma per ottenere i sudatissimi crediti. Sono lì, tanto vale che ascolti.
    Ne ho già seguiti alcuni di questi eventi. Se non da un punto di vista formativo, valgono almeno come spunto per farti venire dei dubbi. I dubbi sono sempre bene accetti. Non che io non abbia bisogno di "formazione", per carità, è solo che i famigerati "corsi" sono talmente brevi, rapidi e concisi che non possono non essere superficiali. E la superficialità, a me, indigna. Anche se è gratis.

    Roma, sabato mattina, Teatro Argentina.
    Mi sono iscritta ad un evento dal titolo "Raccontare lo spettacolo dal vivo. Linee guida per una deontologia nella critica di oggi". Finalmente un argomento che mi interessa. Dopo 20 minuti di fila per l'accredito assisto ad una prima parte - quella prima della sacrosanta, intoccabile "pausa caffè" - dove si parla di critica teatrale, tra colleghi che si occupano da sempre di teatro sulla carta stampata, sul web, sulle reti Rai, radio e televisive. Teatro, teatro, teatro. Testate di critica teatrale on-line, giovani imprenditori che scrivono per amore verso il teatro, giornalisti della rete che formano altri giornalisti a diventare professionalmente disoccupati, come loro. Anzi, mi correggo, occupati, ma non retribuiti. Interessanti le esperienze, numerosi gli spunti, desolanti la prospettive. Tanto che sembra che i pochi colleghi che ancora vengono pagati per fare questo mestiere se ne vergognino, contrariamente a tutti quelli che vanno decisamente orgogliosi delle loro prestazioni non retribuite.
    E si parla di come sfruttare un'idea vincente, dare seguito ad un'intuizione felice, adeguarsi alle richieste dei numerosi e mutevoli fruitori online e godere del successo del momento, nel caso in cui si riesca a dare il servizio giusto, all'utente giusto, al momento giusto. Finchè dura.
    Carpe diem.

    Eventi del genere mi incuriosiscono. Ma quando sono perplessa il mio entusiasmo scema.
    Così non chiedo nulla a nessuno, e aspetto con ansia  il "secondo atto" in cui però, come già scritto nell'ipotesi, viene solo confermata la tesi. Anche nella seconda parte dell'incontro si parla esclusivamente di teatro. Solo di teatro. Mah...
    Rileggo con più attenzione il foglio dell'accredito. C'è proprio scritto "Raccontare lo spettacolo dal vivo". Cerco parole come teatro, teatrale, palcoscenico o qualsiasi altro termine che giustifichi il tema unico, ma non trovo niente.
    Si approssima la fine dell'evento. Io non ho voglia di fare domande, l'ho già detto, quando sono perplessa e delusa mi mancano le parole. Ma com'è, però, che non viene in mente a nessuno di chiedere perché non si parla di altro? Come si può non parlare di musica? E di televisione? E, perché no, del balletto, del circo, dell'arte di strada...
    Invece no. Fino alla fine, la critica teatrale dimostra con liquida sufficienza di bastare a se stessa senza nemmeno porsi il problema dell'esistenza di altro. Senza farsi venire il dubbio che possa esistere una fetta di colleghi che nella vita sono stati critici di altro.

    Delusa e poco soddisfatta dopo quattro ore di chiacchere monotematiche, prima di lasciare il teatro vado a cercare la toilette. Cerco la sagoma femminile per individuare la porta giusta e mi metto in fila, anche lì davanti. Ma non posso fare a meno di guardare l'adesivo incollato sotto la silhouette della donnina. Incrocio lo sguardo di una collega: entrambi incredule (sarà uno scherzo?), condividiamo il primo e forse unico sorriso largo della grigia mattinata.

    Complimenti alla fantasia del bravo massaggiatore che invita le signore a cogliere al volo le gioie dell'oggi.
    Complimenti a chi, in un prestigioso teatro della Capitale, ha pensato fosse sufficiente limitarsi a cancellare i numeri telefonici invece di rimuovere prontamente l'adesivo.
    Complimenti a chi ha dato il nome all'evento odierno.
    Roma, 29.11.2014 - Teatro Argentina

    Uno sguardo è per sempre


    Ci sono cose che ti segnano tutta la vita.
    Nella mia, sono gli sguardi.
     
    Quello di Robin Williams, per me, è stato uno di quelli. In una conferenza stampa lontana, dove intratteneva i giornalisti allo stesso modo come avrebbe intrattenuto un pubblico qualunque, durante le firme di autografi richiesti per dovere, il suo sguardo ha incrociato il mio. Due occhi chiari di adulto buono e saggio, in un silenzio muto fatto di miliardi di parole.
    L'ho portato a casa quello sguardo in cui, chissà perché, lessi timidezza, solitudine, fame di complicità.

    Mi viene in mente poi lo sguardo rassegnato di un mio fratello che, in punto di morte, cercava il mio per la necessità di farsi accompagnare dolcemente in un viaggio che sapeva di dover fare. In quello sguardo c'era il dispiacere di lasciarmi, la gratitudine per i miei sacrifici. Era un gatto, ma solo per gli altri. E io, per lui, non ero solo un essere umano.

    Tra i ricordi indelebili c'è anche uno sguardo paterno. Di un uomo che non dimentica di essere padre anche se gli sta crollando il mondo addosso. Che si trattiene dal confessarti il suo terrore perché tu sei comunque la sua bambina, da proteggere, fino alla fine. Il terrore, però, l'ho letto, e ho cercato, con una carezza, di fargli sentire il mio amore, quello di tutta una vita. Chissà se ci sono riuscita.

    Ricordo anche sguardi frivoli. Come quello malizioso di Huey Lewis a passeggio a Roma in via Frattina. Sguardo sfoderato con spavalderia dopo aver abbassato i Ray Ban, che partendo dalle mie gambe abbronzate saliva su e poi mi puntava il viso, mentre i suoi gli elargivano cameratesche pacche sulle spalle. Indimenticabile.

    E quello indelebile, indescrivibile, di un uomo che non riusciva a dirmi addio.

    C'è uno sguardo, però, che non sono mai riuscita a descrivere come avrei voluto. Ricco e pieno di tante di quelle cose che, forse, complice la mia giovane età, non potevo comprendere ma solo intuire.
    Occhi di un azzurro intenso che ti mettevano a nudo e, al tempo stesso, ti facevano sentire parte del suo mondo. Occhi che mi hanno abbracciato, e compreso, e amato, e rimproverato, e osservato, sguardi rapidi, essenziali, profondi, fermi, inquietanti e rassicuranti.
    Quelli erano gli occhi di Karol Wojtyla. 
    Per sempre nei miei, insieme a tanti altri. A riempirmi giorni luminosi e notti buie. 

    Huey Lewis and The News - Stuck with you

    Nano Nano

    Il mondo dello spettacolo è permeato da enormi finzioni. Occasionalmente, però, c'è qualcosa di molto vero. 
    Come quello sguardo che ho incrociato e raccolto tanti anni fa, in una conferenza stampa anomala, tra un fuoco di fila di battute, non tutte esilaranti, ma inarrestabili e infinite, a cui non potevi resistere anche se non le capivi fino in fondo. Perchè non petevi resistere a lui.
    Quello sguardo silente mi parlava di timidezza, di umiltà, ma soprattutto di fame di complicità.
    Strano.
    Forse non ne ha trovata a sufficienza nella vita.
    Forse voleva solo riposarsi un po'.
    Ha dato così tanto.
    Peccato perdere quella voglia di dare agli altri. Peccato.

    Succede...

    Ve lo dico: sono di parte.
    Dalla parte dei Beatles, da quella degli Yankees e quella degli Spandau Ballet.
    Ecco perchè ieri sera, sentendo Tony Hadley intonare un pezzo dei Duran Duran, ho sorriso. E poi riso, forte.
    Ma questa è una delle magie che compie il tempo quando passa, specie se ne passa tanto.

    Succede che Tony è un altro, ma chissenefrega delle guance rosse per l'alcool se canta ancora così a cinquantaquattro anni. Succede che nessuno gli lancia più reggiseni sul palco ma qualche orsacchiotto gli arriva ancora, lui lo raccoglie, lo regala ad un bambino in braccio al padre in prima fila, e la signora accanto gli urla in romanesco: "A' bello ciacioneee!". Succede che canti a squarciagola con i piedi che ti fanno male, a due metri da lui, ma vicino a te non c'è la tua compagna di banco a tenerti la mano sudata dall'emozione, ma tua figlia adolescente che non capisce il tuo entusiasmo ma è lì perché ti vuole bene. Succede che godi, esattamente come allora, ma invece di strapparti i capelli ti stampi sul viso il tuo più bel sorriso, perenne, di gioia e gratitudine.
    Per averle vissute certe gioie. Per viverle ancora certe gioie.
    Per un concerto ineccepibile, per una voce ancora superba, per un gruppo coi fiocchi.

    Bello. Bello. Ancora!



    L'anno vecchio se ne va...



    Inevitabile, ogni Capodanno, fare un piccolo bilancio di quello che è stato l'anno precedente. Come è ovvio che sia, c'è la fazione degli "insoddisfatti" e quella dei "grati", che dovrebbero spartirsi la torta dei doni dell'anno più o meno al cinquanta per cento. Ma vuoi per la crisi, vuoi perché è più facile e più popolare vedere il bicchiere mezzo vuoto, negli ultimi anni gli "insoddifatti" sembrano dominare la scena.
    Per questo mi sono stupita, stamani, quando ho sentito un'intervista alla campionessa di fondo Valeria Straneo che, dopo l’operazione alla milza che l’ha guarita dalla sferocitosi, ha avuto una escalation rapidissima che l'ha portata ai vertici dell’atletica internazionale. Nell'intervista, la maratoneta si dichiarava (quasi imbarazzata nel farlo) strafelice dell'anno appena trascorso, per le grandi ed inaspettate soddisfazioni dal punto di vista atletico.

    Io non appartengo, per default, ad una o all'altra categoria. Ma quest'anno, ahimè, anche se qualcosa di buono sempre c'è, devo schierarmi con i più. Non mi lamento, non mi piace farlo, ma se potessi li cancellerei tutti i dodici mesi del 2013. Il mio essere un po' strega l'aveva previsto il buio, facendomi affrettare a concludere tutti gli impegni più importanti entro dicembre 2012. Non so perché l'ho fatto, non c'era niente che potesse farmi supporre nulla, a parte un Giove in opposizione e un personale Saturno in dodicesima casa, quella delle prove, dalla quale non schioda da tempo (di cui però non si può parlare al mondo...), e a parte una congenita allergia verso il numero 13, in tutte le sue forme. Si chiama triscaidecafobia - l'ho imparato di recente - e trattasi di una paura del tutto immotivata, verso il suddetto numero. Oddio, immotivata poi... se ha origine da Giuda in esubero alla tavola di Cristo, tanto immotivata non mi sembra; così come non mi pare felice se nei Tarocchi la carta numero tredici è la Morte. Hai voglia a dirmi che non è una carta negativa perché rappresenta la rinascita...

    Tornando al mio discorso, come stavo dicendo il 13 a me non piace affatto, e m'ha sempre dato fastidio. Come quella volta che per non averlo barrato, dopo aver girato più volte la penna sopra al suo cerchietto, ho saltato la più grossa vincita della storia al Superenalotto. Come quell'altra in cui ho comprato una casa all'interno 13 (perché non bado a queste cose, io) che m'ha dato problemi già da prima del compromesso. Non sono scaramantica, almeno non nel senso più puro del termine. Ma ho imparato, nella vita, a fidarmi del mio istinto, e a fare le cose che ritengo opportuno fare quando mi sento di farle. Finora m'ha detto bene.

    Comunque... siccome nella vita io il bicchiere lo vedo quasi sempre mezzo pieno, oggi che l'anno è giunto al termine, mi va di pensare al fatto che il numero 13 è associato alla fine di un ciclo, ergo, precede nuovi inizi. [Tredici sono i mesi lunari ogni anno solare, tredici i segni dell'astrologia celtica, tredici i suoni di ogni ottava cromatica (le note di ogni ottava, comprese quelle alterate con diesis e bemolle) e sommando i primi 13 numeri si ottiene 81, ossia il numero di giorni da cui è composta ogni stagione climatica].

    Insomma, ho fatto tutta 'sta caciara, pardon, tutto questo parlare, solo per dire e per dirvi che spero con tutto il cuore che il 2014 sia migliore del precedente. Sotto tutti i punti di vista. Per tutti quanti. Per ogni cosa. Per un nuovo inizio.
    Auguri, auguri a tutti. 


    Bianco e nero



    Nei programmi postprandiali la tv ci parla della povertà degli italiani che, ahimè, nel prossimo anno, a causa dell'aumento delle tariffe, diventeranno ancora più poveri. Si prevede un esborso di circa 1.400 euro in più a famiglia. Ma tranquilli... Domani si vota il decreto Milleproroghe. Forse, nel nostro piccolo, li recuperiamo sti' 6 miliardi e rotti di euro che altrimenti andrebbero in fumo.

    Allora mi vengono in mente altre cose da recuperare. Come ad esempio quegli 11 miliardi di dollari in pietre preziose che addobbano l'alberello di Nalale dell'hotel Emirates Palace di Dubai? Non che la fame nel mondo si risolva così, con due zaffiri... Però, chi ha sborsato i soldi per l'addobbo dell'abete a quattro piani, potrebbe pure dare le palline in beneficienza, dopo la Befana...
    Ma manca poco a Capodanno, dobbiamo pensare positivo, lasciarci alle spalle questo schifo di 2013. Noi, da bravi romani, preferiamo buttarla in caciara...

    E io?
    Sono arrabbiata sì, se bevessi caffè lo sarei ancora di più, perché dal 1° gennaio sarà possibile aumentare fino al 6 per cento, anche in barba ai contratti stipulati, il prezzo del caffè dei distributori automatici.
     "Non ti smentisci mai", mi dicono, "devi sempre vedere bianco o nero, mai grigio".

    Già. Il grigio mi fa schifo.
    Sono sempre i sogni a dare forma al mondo
    Sono sempre i sogni a dare forma al mondo, Ligabue

    Ipocrisie


    Stanno per iniziare i Wind Music Awards su Raiuno, cosi posticipo la cena perche so che Baglioni uscirà per primo. Claudio è come il primo amore, non si scorda mai... e io non mi scordo nemmeno stasera di guardarlo dal Centrale del Foro Italico. Il pezzo nuovo non mi piace, ma lo guardo e lo ascolto con amore, come sempre, con lo stesso sguardo sia dietro le quinte che davanti allo schermo televisivo. Con amore, ma anche con distacco e lucidità, sia con un pass attaccato al collo sia sul divano di casa. Stasera, lo ammetto, mi fa un brutto effetto vederlo leggere il gobbo veloce veloce, perché qualcuno deve averglielo detto che in una serata così lunga, che deve dare il palco a tanti artisti, non può fare un monologo di un quarto d'ora, pure se si chiama Claudio Baglioni. Non l'ha fatto manco Renato Zero...

    Claudio, da bravo, legge le sue spiegazioni al progetto "Con Voi" e incastra a forza le parole, con sfida, in un'intro lunghissima che tutti gli passano, perché in quel momento è un mito per tutti i miopi del mondo. E ce la fa. Alla fine che importa cosa canta. I WMA proseguono: sul palco sempre gli stessi, quei pochi che oggi ancora vendono dischi. Sono proprio pochi. E sempre gli stessi. Guardo Fiorello, che riesce comunque a strapparmi una risata prima di cedere al sonno. Domani mi devo ricordare...
    Mi devo ricordare di ascoltare il secondo inedito che Baglioni ha deciso di vendere solo su iTunes, "Dieci dita", in anteprima dalle frequenze di Radio Italia. E meno male, perché, almeno musicalmente, lo ritrovo, anche se non riesco più a stare dietro ai suoi testi chilometrici e mi viene da sorridere quando risento odore di Procol Harum. Avrei voglia di chiedergli se la sua è solo un'ispirazione o se l'ha fatto puntando sul fatto che le nuove generazioni difficilmente hanno masticato "A whiter shade of pale", "Homburg" e "A Salty Dog".

    Mando un paio di Twett, tanto per dire la mia. Poi, gironzolo, in cerca di commenti. Possibile che ci siano solo parole di lodi sui nuovi pezzi? Non c'è nessuno che, come me, abbia voglia di dirgli qualcosa di critico, non per giudicarlo, ma semplicemente per spingerlo a far meglio. Vorrei sempre il meglio da chi amo... Ho capito male, Clà? Non è quello che vuoi dai tuoi fan?

    Gironzolo ancora su internet e vengo a sapere che il Papa, stamattina, si è pesantemente schierato contro l'ipocrisia. Avrebbe invitato i fedeli a non usare il "politicamente corretto", perché "la lingua della corruzione è l'ipocrisia". Cerco, continuo a cercare, mi sembra un argomento perfetto per quello che sto scrivendo. Leggo tanti articoli, dicono tutti più o meno le stesse cose, qualcuno dice che sia rivolto ai politici, qualcuno dice che parla ai giornalisti... Può essere. 
    Ma io voglio assolutamente sapere cosa ha detto. Comincio allora a cercare sui giornali on line. Ce ne fossero due che riportano la stessa frase! Non mi accontento di parole riportate, voglio sentire la sua voce. Cerco allora di andare alla fonte, rivolgo la mia attenzione all'Osservatore Romano e al sito di Radio Vaticana. Questa, almeno, riporta dei virgolettati che dovrebbero essere fedeli a quanto dichiarato dal Santo Padre. Evviva! C'è un file audio da ascoltare, scarico l'mp3, ma...

    Apro il file, e con mio stupore, c'è una voce narrante che "introduce" frasi brevi estrapolate dal discorso generale, "spiegando", anticipando, il significato di quello che si sente subito dopo.
    Cerco, cerco e trovo lumi in una dichiarazione di padre Federico Lombardi che (riassumo) spiega che le omelie del Papa nelle messe mattutine nella cappella di Santa Marta hanno un carattere familiare che lui stesso intende conservare, non trasmettendone, quindi, né audio né video. E poi che "le omelie sono in lingua italiana, lingua che il Papa possiede molto bene, ma non è la sua lingua madre... e una pubblicazione integrale comporterebbe una trascrizione e una ristesura del testo in vari punti, dato che la forma scritta è differente da quella orale, che in questo caso è la forma originaria scelta intenzionalmente dal Santo Padre". Insomma, occorrerebbe una revisione del Santo Padre stesso, ma il risultato sarebbe chiaramente "un’altra cosa", che non è quella che il Santo Padre intende fare ogni mattina. Riporto ancora: "Dopo attenta riflessione si è quindi considerato che il modo migliore per rendere accessibile a un largo pubblico la ricchezza delle omelie del Papa senza alterarne la natura è quello di pubblicarne un’ampia sintesi, ricca anche di frasi originali virgolettate che riflettano il sapore genuino delle espressioni del papa".

    Sì, ho capito, ma che discorso è? Mi viene da dire... O si rende pubblico o no.
    No, a farlo a pezzi.
    No, a farlo con le "spiegazioni".
    Perché io non dovrei essere in grado di capire quello che vuole dire il Papa, anche se la sua forma parlata non è poi cosi perfetta?
    Deve ancora esserci qualcuno che si arroga il diritto di decidere cosa ho il diritto di pensare?

    L'omelia non vale per tutti? Anche per chi "omette", non è vero?
    "Gesù ci dice: il vostro parlare sia: Sì, sì. No, no. Con animo di bambino", ha ricordato stamane Papa Francesco.

    Caro Papa, io lo faccio, l'ho sempre fatto. Con educazione, credo e spero, ma l'ho sempre fatto. Sui giornali su cui scrivo e con le persone con cui vengo a contatto.

    Ah... stavo dimenticando Claudio Baglioni.
    Che dice pubblicamente di cercare "suggerimenti" tra il suo pubblico. Anch'io, quindi, dico la mia.
    La bellezza e la validità di un brano musicale non dipendono dalla capacità del suo interprete di estendere la sua voce su più ottave. Andando avanti nel tempo, rendersene conto sarebbe auspicabile. Così come rivedere le tonalità dei pezzi.
    Ma è solo la mia opinione.

    @ Caterina Somma

    La prima canzone non si scorda mai



    Nell'estate del '69 non facevo altro che mettere quel disco nel jukebox dello stabilimento balneare.
    Forse facevo un po' ridere, piccola com'ero, e forse qualcuno era stufo di sentire quel tormentone per la terza estate di seguito. Ma allora era così. Vaglielo a spiegare ai ragazzini di oggi...

    Allora un disco si ascoltava e si cantava per anni, se era un disco che valeva. Un bel disco suonava in quello scatolone magico sempre sotto la stessa combinazione di lettere e di numeri. E ogni bambino conosceva a memoria i tasti da schiacciare per sentire il pezzo preferito che, in barba al tempo che passava, rimaneva sempre là, mese dopo mese, spesso anno dopo anno.

    Come la "mia" Cuore Matto.
    Che ho cantato con amore da quando sono nata, e per tanti anni a seguire. Che cantavo ogni volta che maneggiavo un elettrocardiografo giocattolo che mi ricordava il lavoro di mio padre. Che continuerò a cantare, con lo stesso amore, con lo stesso spirito, finché vivrò.

    Ricordando, insieme ad essa, i suoi concerti, imperturbabili nei secoli, le sue splendide auto da collezione nella casa in campagna vicino alla mia, e perfino quella bara di cristallo di Mary/Biancaneve a Primaporta, vicina vicina alla cappella della nonna che non ho mai conosciuto.
    Che, fin da bambina, mi ha fatto capire che anche la musica, è una cosa seria.
    Una cosa per cui si può pure morire.
    Ma anche, e soprattutto, una cosa per cui vivere. Per sempre.
    Come Tony.
    @ Caterina Somma

    Ah beh, sì beh


    E sempre allegri bisogna stare
    che il nostro piangere fa male al re...


    Una speranza di nome Francesco


    Ieri mattina, per le vie del mercato rionale di Testaccio, il pescivendolo commentava il brutto tempo e la mancanza di acquirenti aggiungendo "Semo pure senza Papa...". In effetti, siamo tutti un po' orfani senza di lui, a Roma un po' di più. Qui, non se ne può fare a meno.
    Ma perché c'è tanto "bisogno di Papa"?

    Sarà che sono in un momento delicato della mia vita, sarà che fondamentalmente sono cattolica, ma io quest'elezione la aspettavo con ansia. La sede vacante, con un emerito in pantofole che aspetta il suo successore, mi faceva strano.
    Come tanta gente, anch'io ho guardato in diretta il comignolo della stufa della Sistina, per poter finalmente veder uscire quel fumo bianco. E ho gioito, come tanti, quando è stato certo che il colore fosse quello giusto. In questi momenti, un cattolico non può pensare ai crimini della Chiesa, ai preti pedofili, ai segreti di Stato. Non dimentica, no, ma il suo pensiero non può essere lì. Non può.

    Un cattolico guarda gli occhi del nuovo arrivato, osserva il suo viso, il mondo di gesticolare, il tono della sua voce. Cerca di cogliere e condividere l'accenno di un sorriso, di scorgere esitazioni e paure.
    Pensa alla speranza di avere un padre nuovo, buono, onesto, che sia di conforto ma soprattutto di esempio. Perché la Chiesa, come l'umanità, è fatta di uomini. E l'uomo buono, che cerca con l'esempio di riformare un sistema marcio, non può essere paragonato a chi, i crimini, li ha commessi in prima persona.
    Sì, è ovvio, credo nel perdono dei peccati. Ammesso che ci sia un sano pentimento. Ma non so se riuscirei a perdonare veramente chi, per questioni di potere, cammina sopra i diritti degli altri.
    Eppure, da ottimista, penso che un sistema marcio possa riformarsi più dal di dentro che da fuori. Più facendo parte di quel sistema, in maniera attiva, che criticando, passivamente, dall'esterno.
    Se ognuno di noi lo facesse, nel suo infinitamente piccolo orticello...

    E intanto vivo, penso, leggo.
    Così su internet, dai giornali e dalla bocca della gente, vedo e ascolto tante voci diverse.
    I sensazionalisti parlano della presunta collusione di Bergoglio con la dittatura argentina, del suo modo agire politico tra i politici. Ma sono già stati smentiti, e a farlo sono noti esponenti anticlericali. Se lo dicono loro. Qualcuno lamenta la provenienza del papa da uno degli stati più misogeni e antianimalisti del mondo. Ma lui rifiuta la stola d'ermellino. C'è poi chi estrapola frasi incredibili dai discorsi dell'arcivescovo di Buenos Aires, come "Le donne sono naturalmente inadatte per compiti politici." Su Facebook ci si chiede se l'abbia detto veramente. Prima o poi lo sapremo. A qualcuno non sembra un papa "stabile", e ironizza "Bergoglio zoppica vistosamente. Dio a Scola: 'Scaldati!'". 
    Ma c'è tanta gente, la maggioranza, che ha visto qualcosa di buono negli occhi del nuovo arrivato, nei suoi gesti così poco solenni, nelle sue parole semplici, dirette, emozionate. Qualcuno dice che "Francesco spacca", che "è un genio", che "emana una bella luce", che "somiglia ad Albino Luciani" (il che non può non essere di buon auspicio). Qualcuno, lo riporto per dovere di cronaca, vede in lui il "Papa Nero" di Malachia. Non d'aspetto, ma di toga... (quella dei gesuiti). Che sia davvero lui l'ultimo papa? 

    Torniamo ai fatti. 
    Fino ad ora, Bergoglio ha vissuto in un piccolo appartamento, ha sempre utilizzato i mezzi pubblici per gli spostamenti. La sua sobrietà è leggendaria. E comunque, durante la dittatura argentina, salvò preti e laici. L'ha fatto.
    Di primo acchito, Francesco appare ai più un essere umile, gentile, sensibile. Anche se, innegabilmente, l'unico aggettivo che mi viene in mente dopo aver sentito il nome pontificale che ha scelto, è: furbo. Ma non è una colpa esserlo, semmai un merito.

    Francesco. Un nome, un programma.
    Perché tutti - in questo momento storico ancora di più - abbiamo bisogno di spogliarci del superfluo.  
    Perché il mondo, per la sua salvezza, ha necessità di distribuire equamente le proprie ricchezze.
    Perché sulla terra, per sopravvivere, uomini, donne e animali devono riuscire a parlare la stessa lingua.
    Magari fosse vera l'intenzione di seguire la strada del santo.

    Sarà la storia, come sempre, a dire chi aveva ragione.

    © Caterina Somma - Tutti i diritti riservati

    Cronaca di un distacco telefonico


    Qualche anno fa
    Io, che da sempre lavoro con i computer, apprendo con gioia che la Telecom ha finalmente predisposto un servizio di gestione della linea telefonica on line. E con il sollievo che accompagna sempre le notizie che ti semplificano la vita, mi affretto ad iscrivermi nell'area clienti della compagnia telefonica. Qualche dato, user name e password e voilà, il gioco è fatto. Almeno sembra fatto.
    Perché, io che lavoro da sempre con i computer, lavoro con un Mac. L'editoria, come il mondo della grafica e della musica, usa Mac, e non per snobbismo. Certo, la maggior parte degli utenti, in Italia, usa il Pc... Che faccio, reclamo? Mah, forse non vale la pena. Comunque la mia segnazione la faccio lo stesso.
    "Sì, lo so, signora, con i Mac il servizio dà dei problemi", risponde l'operatore. E meno male che la compagnia si occupa di telecomunicazioni! Per pagare le bollette del telefono online devo andare in un call-center. Faccio fatica, ma almeno contribuisco alla salute del pianeta. Finché...

    Un anno fa
    Nonostante le mie segnalazioni, il 187 on-line continua a funzionare solo per Pc. Allora, pur essendo un'ecologista e anche volendo con tutta me stessa risparmiare la foresta amazzonica, torno al cartaceo. A malincuore, chiedo che le bollette mi vengano di nuovo recapitate alla vecchia maniera, ossia tramite servizio postale. Ma, dopo un paio di invii, Poste Italiane sembra dimenticare il mio indirizzo... COMINCIO A NON RICEVERE PIU' BOLLETTE PER POSTA (ma solo da Telecom, perchè l'altra posta arriva correttamente).
    Per fortuna, tramite e-mail, mi arriva comunque la segnalazione di emissione della bolletta. Così, in un modo o nell'altro, vengo a sapere che è stata emessa e riesco a pagarla on line. Dal mio computer, il cui hard disk è stato partizionato per avviarsi anche in modalità Windows...

    Due mesi fa
    Faccio il numero di casa. Libero, ma nessuno risponde. Strano. In casa c'è qualcuno, lo so, che poco dopo mi chiama dal cellulare. Torno a casa, verifico di persona che il telefono non funziona. Chiamo il 187, e l'operatore mi dice che l'utenza è stata sospesa per morosità. Mi sono scordata di pagarla? Può essere. Se non ti arriva mai nessuna comunicazione, può anche essere che te ne scordi.
    "Signora, lo so - mi dice laconicamente l'operatore Telecom - tutta Italia lamenta di non ricevere più le bollette, deve fare un reclamo a Poste Italiane"
    Ma perché? Fatelo voi! Chi me lo paga il tempo perso per andare a fare reclami? E così otterrò di nuovo la mia linea? No. E che ti staccano la linea dopo la prima fattura non pagata?
    "Signora, ma perché utilizza la domiciliazione bancaria?"
    La risposta non sarebbe semplice e brutale come quella che mi viene in mente, così, sforzandomi di essere gentile, rispondo che preferisco fare così, per tenere la spesa sotto controllo. Vado in posta a pagare un bollettino in bianco con l'importo da saldare. Aspetto qualche giorno. Niente da fare Riprovo a chiamarmi da fuori. Un disco mi risponde, dispiaciuto, che il numero da me composto è inesistente. Sarà un contatto. Rifaccio il numero. Il disco, imperterrito, ripete lo stesso messaggio. Sarà un guasto. Richiamo il servizio clienti per segnalarlo.
    "Verrà ricontattata entro 24 ore".

    Due giorni fa
    Passa una settimana. Nessuno si è fatto vivo. Nell'ennesima chiamata al 187 sono un po' meno gentile...
    "Per forza non la chiama nessuno signora, non c'è nessun guasto, l'utenza è stata sospesa". Perché? "Non lo so signora, controllo.... Signora, mi scuso per l'attesa, qui mi dice che l'utenza è stata cessata". PERCHE'?
    "Non so, signora, a me risulta che i pagamenti sono tuti regolari. Forse l'ha chiesto lei?".
    Rispiego tutto daccapo.
    La mia scelta iniziale di sospendere il cartaceo. La mia scelta successiva di tornarci. La mancanza totale di bollette di carta e la mia rassegnazione a non ricevere più niente da Telecom. Nel frattempo l'operatrice trova qualcosa e mi dice che, circa un mese fa, Telecom mi ha inviato una raccomandata di rimborso. Di che? Del canone che avevo già pagato in anticipo.
    "Ancora non ha ricevuto il rimborso signora?"
    NON RICEVO MAI NULLA PER POSTA DA TELECOM DA MESI!!!
    Ribadisco il concetto, stavolta mi viene un po' da ridere.
    "Allora signora, ho parlato con il mio superiore, mi ha detto che è chiaro che Telecom ha commesso un errore. Entro 48 ore riceverà una telefonata sul cellulare che le dirà che la linea è stata ripristinata. E poi, certamente, oltre al rimborso delle spese per un servizio che non ha potuto utilizzare da mesi, riceverà delle scuse scritte da parte di Telecom"...
    Scritte? 
    La promessa è esilarante, verrebbe da piangere...
    Invece, prima di riagganciare, condivido con l'operatrice telefonica una risata fragorosa.



    Asteroidi nel tempo

    Nessun asteroide entrerà in contatto con la terra.
    Sono affermazioni come questa a farmi tremare. Come quelle del capo della Protezione Civile, quando afferma che lo sciame sismico è sotto controllo, e la gente può tornare a dormire sotto le lenzuola.
    Temo, come ho tremato sabato sera sulla sedia di legno a dondolo, illusa che il tremore fosse dovuto al gatto che giocava sotto ai miei piedi, confortata dall'apparente immobilismo del lampadario sulla mia testa.
    La scossetta di terremoto, due giorni dopo l'asteroide e sei giorni dopo l'annuncio delle dimissioni del Papa, sta a lì a ricordare le nostre fragilità, l'inconsistenza delle nostre esistenze, la forza della natura che, se deve manifestarsi, lo fa pure mentre sul palco dell'Ariston si stanno contendendo la vittoria del Festival di Sanremo.
    Ed è pura coincidenza - ci dicono - se il meteorite che ha fatto sfracelli in Russia sia caduto il giorno in cui era previsto il transito dell'asteroide tenuto d'occhio da tempo.
    La natura fa il suo corso, pure se manca solo qualche giorno alle elezioni politiche. Con rassegnata accettazione ne prendiamo atto.
    Questo però non vuol dire che con la stessa rassegnazione siamo obbligati a subire tutto quello che ci passa accanto o ci viene imposto, specie se da altri esseri umani. Nasce ogni tanto qualcuno che ce lo ricorda.
    Oggi, nel 1600, anche sul rogo Giordano Bruno continuava a sperare "verrà un giorno che l'uomo si sveglierà dall'oblio e finalmente comprenderà chi è veramente e a chi ha ceduto le redini della sua esistenza, a una mente fallace, menzognera, che lo rende e lo tiene schiavo...".
    Ma la conosceva, Bruno, questa classe politica? Forse sì. "L'uomo non ha limiti e quando un giorno se ne renderà conto, sarà libero anche qui in questo mondo", disse anche.
    Caro Giordano (perdoni il mio affettuoso appellativo), il risveglio delle coscienze, ciclicamente, c'è stato e c'è.
    Ma dopo ogni rivoluzione, va a sbattere inevitabilmente contro il muro degli interessi personali; di fronte ai quali, i limiti umani tornano a manifestarsi in tutto il loro cinico e drammatico splendore.
    Che resta? Il libero arbitrio.
    © Caterina Somma - Tutti i diritti riservati
    Asteroids in the Distance
    Image Credit: R. Evans & K. Stapelfeldt (JPL), WFPC2, HST, NASA

    Non-morto un Papa se ne fa un altro


    Ero in una sala d'aspetto di un policlinico romano, annoiata dagli eterni tempi d'attesa delle visite mediche, quando il televisore approntato per quietare i pazienti non pazienti ha trasmesso l'edizione straordinaria del telegiornale. La sala, improvvisamente silente per raccogliere rassegnata qualunque tragica notizia, ha invece accolto le dimissioni del Papa con un deciso sollievo, che trasmetteva con ironico stupore, tra sorrisi, sguardi increduli alla ricerca di altri sguardi, complici, una volta tanto, di un evento unico ma non drammatico. Diciamo la verità: oggi fa più male scoprire quanto si deve pagare d'Imu che apprendere che il Papa lascia.

    Non sono anziana ma neanche così giovane da non cercare, nella memoria, un evento analogo nella storia recente dell'umanità, e mentre continuavo a dirmi che l'atto non era cosa giusta, ho ricordato qualche papa rinunciatario in epoche lontane. Ma nella mente riuscivo solo a pensare al gesto di Celestino V, ufficialmente spinto all'abbandono "per umiltà e debolezza del corpo e la malignità della plebe" ed effettivamente stufo di pontificare sotto le pressioni di Carlo d'Angiò. Ma non c'è niente da fare: anche se i motivi che lo spinsero a rinunciare sono stati storicamente compresi, nella testa di noi italiani, figli di Dante Alighieri, il povero Celestino sta all'inferno, e lì deve restare. E anche se la logica ci dice che Napolitano ha ragione quando parla di gesto "di straordinario coraggio" da parte di un uomo che non se la sente più, fisicamente, di svolgere il suo ruolo, restiamo perplessi. Comprendiamo le dichiarazioni di Berlusconi che dice che se Benedetto XVI si dimette è "per garantire alla Chiesa Universale un governo saldo e forte" e apprezziamo perfino lo sforzo di Bersani, che tranquillizza dichiarando che "questo Papa non prende decisioni per debolezza ed è un grande teologo".
    L'abbiamo capito: si può fare. 

    Ma un cervello ce l'abbiamo pure noi. Ce l'ha pure tutta la gente di stamattina, in quella sala d'attesa, che, mentre lo speaker del tg riporta le dichiarazioni ufficiali della stampa vaticana, parla di periodo "carnevalesco", sotto tutti i punti di vista... Nessuno giudica il Papa, forse non si permette così, a freddo, ma qualcuno tira fuori i segreti della Chiesa, invoca la verità su Emanuela Orlandi. E qualcuno si chiede che effetto avrà questa decisione sulle prossime elezioni politiche

    Nella testa si scatenano i pensieri più vari. La prima cosa che mi viene in mente è che l'11 febbraio, anniversario dell’apparizione di Nostra Signora di Lourdes, è la data della firma dei Patti Lateranensi tra Santa Sede e Stato italiano che, così, "risolvono ed eliminano la Questione romana". Mi viene perfino in mente un articolo che ho scritto due anni fa sul numero 11, numero Maestro, dal grande potere esoterico... Me lo rileggo. Che guaio...  
    Mi viene in mente Nostradamus e Malachia, che nella profezia in cui elenca i papi, dopo il 111-esimo (che dovrebbe essere proprio Benedetto XVI "Gloria Olivae"), interrompe la numerazione, e il 112-esimo lo chiama Petrus Romanus senza indicare il numero e scrivendo: "In persecutione extrema Sanctae Romanae Ecclesiae sedebit Petrus Romanus, qui pascet oves in multis tribulationibus; quibus transactis, civitas septicollis diruetur, et Judex tremendus iudicabit populum suum. Finis". Chi è Pietro Romano, il papa-non papa (perché eletto in modo diverso?) sotto cui crollerà la Città dei Sette Colli? 

    No, no, non mi va di entrare nel circolo vizioso delle interpretazioni di profeti e profezie. Ma una curiosità astrologica mi impone di dare un'occhiata al suo tema natale. Scopro così che le "dimissioni" sono state pronunciate all'indomani di una Luna Nuova in Acquario che, nel tema natale del Papa, si accompagna a ben 6 pianeti (Sole, Luna e Venere + Marte, Mercurio e Nettuno) nella sua XII Casa natale, tra Acquario e Pesci. Urano, in I Casa, è il regista della scena.
    Senza farla lunga e per i non addetti: che Joseph Ratzinger sia stanco e non se la senta di andare avanti è plausibile, ma tutto quell'affollamento di pianeti nella casa delle prove e dei segreti, odora di mistero. Magari è vero che c'è qualcosa che non ha saputo gestire...  

    Lascio stare pure l'astrologia e torno coi piedi per terra.
    So, per mestiere, che 50 anni fa, proprio l'11 febbraio, i Beatles incidevano in un sol giorno, negli study d'Abbey Road, il loro primo album. Se non sono stati una rivoluzione i Beatles... Domani inizia il Festival di Sanremo: chissà se la notizia avrà un'eco anche dal palco dell'Ariston. Comunque, personalmente apprezzo che il Papa abbia evitato Twitter (almeno fino ad ora) per comunicare una cosa così importante.

    Intanto, su Facebook, notizie e immagini collegate alla decisione di Benedetto XVI si moltiplicano. E a parte gli ovvi fotomontaggi sul possibile successore del Papa (Silvio in abito talare), l'immagine che non mi tolgo dalla mente è quella del fulmine che casualmente, proprio ieri, si è abbattuto sulla cupola di San Pietro. La foto sembrerebbe autentica, ma anche se non lo fosse...  
    Citando una canzone della Tosca di Gigi Magni... anche se siete innocenti, "tremate lo stesso, cacateve addosso".

    © Caterina Somma - Tutti i diritti riservati


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