Visualizzazione post con etichetta pensieri. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta pensieri. Mostra tutti i post

Qualcuno per cui morire

Strano Natale, strano Capodanno. Stanno tutti male, influenza o Covid poco cambia, il male del mondo è ovunque, la guerra è lontana solo per chi non vuole vedere.

Mi sforzo di fare festa, cucinare, apparecchiare, servire, condividere. Mi sforzo di fare auguri per una vita serena, per un mondo migliore, per gestire rabbia e dolore che sono solo lo specchio dell'impotenza, la nostra mostruosa spina nel fianco. Tutti o quasi tutti combattono con questa bastarda, quella che fa sentire inutile ogni tuo piccolo sforzo, vano quel piccolo gesto che credevi, nell'atto di compierlo, il mattoncino buono per tirare su la grande casa. Quella maledetta impotenza che fa sembrare il bianco un po' più opaco e il nero mestamente slavato, quella che non ti fa vedere il contrasto e le differenze, quelle che devono esserci e di cui andare fieri, quelle che servono per far funzionare una società. L'eterogenicità che non divide, anzi, è la pietra miliare che rifugge l'omologazione e l'appiattimento.

Finchè... In questo mare di grigio dove sai di essere diverso dai morti solo perché il tuo respiro ancora appanna i vetri, accade qualcosa. A me, quasi sempre, accade una cosa precisa. Arrivano due note nuove, che abbracciano il mood di queste mie giornate, e sento di nuovo quella spinta diversa, che parte dal cuore e che accende il motore. Sento che c'è ancora da fare, possibilità diverse di essere, perché c'è ancora un'emozione da provare. E sono sempre e di nuovo qui a dire grazie ad una melodia, che riesce inaspettatamente a rimettere insieme i cocci, riporta i frammenti negli insiemi giusti, cerchi che si toccano, si scontrano, si fondono, si intersecano, pezzi che da soli non troverebbero un modo per far funzionare gli ingranaggi. Nessuna dose, nemmeno la più massiccia, dei prodotti di merda che ci propinano riuscirà mai a vincere contro quello che, seppur faticosamente, ogni tanto viene fuori dal cilindro magico, sbucando dal nulla, da quel tappeto di niente in cui vorrebbero farci vegetare. Il coniglio è sempre dietro l'angolo, ed è bianco candido, imprevedibile, divertente. Basta solo lasciare aperti i sensi, anche durante il letargo.

E Buon Natale

A chi devo fare gli auguri di Natale?
È una domanda che continuo a farmi, nonostante sia sempre più difficile darmi una risposta. Non riesco più tanto a tener conto della situazione fra parenti e amici cattolici, atei, razionalisti, buddisti, musulmani, ebrei, anticlericali... e mica devo continuare, avete capito.
Col passare degli anni la gente diventa sempre più ex di qualcosa e di qualcuno, e non so se questo accade perché ci sia più conoscenza e libertà, o perché si è alla continua ricerca di ciò che in realtà non si potrà mai trovare cercando nel posto sbagliato, fuori da se stessi. Al di là di questo, non è che io abbia l'interesse né l'esigenza di tener conto dei cambiamenti altrui, il mio affetto resta immutato. Io a Natale gli auguri li faccio a tutti, amici e nemici, e pure a quelli che non conosco affatto. Perché per me il Natale è un'occasione. Che in quanto tale non andrebbe mai sprecata.
Allora mi disconnetto dall'amore e dall'odio e volo medio, tra i sensi della gente e i diritti di ogni creatura vivente, e prego che nessun essere umano dimentichi i doveri che la vita stessa impone, con maggior forza ai pensanti.
Quindi, sia che stiate per trascorrere il Natale in compagnia tra luminarie scintillanti oppure in famiglia con i bambini che sono la luce del mondo, che siate da soli in un letto d'ospedale al buio già dalle otto di sera o in penombra nella stanza dei bottoni indecisi su quale pigiare, o che stiate imbracciando un fucile nella notte più nera che c'è, vi prego: pensate che il Natale è un biglietto vincente della Lotteria già in vostro possesso, prezioso e unico.
Non lo sprecate. Cambia la vita. 

Caterina Somma



Il linguaggio del genitore

Il mestiere del genitore è un lavoro a tempo indeterminato. Che ha inizio e mai fine, nemmeno quando pensi che l'unica soluzione sarebbe dare le dimissioni. È un mestiere per cui nessuno ti ha mai formato e quello che hai potuto imparare dagli esempi altrui ti serve a poco e niente.
Ogni genitore parla un linguaggio a sé, con grammatica, logica e fonemi diversi, che variano anche da figlio a figlio. Pressoché inutile il confronto con altri genitori. Le lingue sono infinite, tutte ostiche ed enigmatiche, che non appena pensi di aver imparato a livello base ti cambiano sotto gli occhi, mettendo in crisi la tua adultità. Che ha la caratteristica di perdere via via l'elasticità necessaria a cambiare marcia. Che comunque cambi.

Il linguaggio del genitore deve necessariamente comporsi di elementi diversi. Le parole sono la facciata del palazzo. Che può essere splendida in un edificio che nasconde irreparabili difetti di costruzione oppure anonima, di un palazzo solido e durevole. Facciata la cui interezza dipende pure da quali e quante intemperie è esposta nel corso del tempo, molte delle quali sono i figli stessi a produrre. Sarebbe bello se i pargoli lo capissero che le loro saette sono in grado di radere al suolo un grattacielo di 100 piani. Forse conserverebbero i dardi nella faretra in attesa di un bersaglio quanto meno più meritevole di esserlo. Ma questo non accade quasi mai.
Il genitore nasce analfabeta, al limite balbuziente, e il suo linguaggio cresce al crescere del prodotto generato. E anche se col trascorrere del tempo impara sempre nuove parole resta infantilmente affezionato a quei termini che gli sembra funzionino meglio. Quelli che magari saranno la causa del denaro che spenderà più avanti per la psicoterapia dei figli. Ma vallo a sapere prima.
Man mano che i ragazzini crescono gli adulti cambiano pelle, alternando la comunicazione autorevole a quella fraterna a quella amicale. E la maggior parte delle volte che aprono bocca subito dopo vorrebbero essersela mozzicata quella lingua impaziente e inopportuna. Ma se ne accorgono sempre un po' troppo tardi.

È da un po' che non faccio altro a suggerire ad una figlia di andarci piano. Come pensare di far sorvolare i continenti ad un aereo solo soffiandoci sopra. Eppure io lo so cosa voglio dire.
Vorrei far capire ad un essere che mi somiglia e che si fa tanto male ogni volta che sbatte la testa cosa scongiurerebbe se solo praticasse un po' di pazienza e imparasse a godere dell'attesa.
Io dico "Rallenta" e lei mi risponde senza parole, con sguardo implorante, che proprio non si può a vent'anni andarci coi piedi di piombo. E io questo lo so, perché sono andata molto più veloce di lei, molto prima di lei. Ma, contrariamente a lei, io avrei voluto tanto che qualcuno mi fermasse. Perciò insisto. Dalla gola e attraverso gli occhi cerco di passarle il mio concetto di andar piano. Mi sforzo, ma non riesco. E quando lei si allontana sento il monologo che avrei voluto fare. "Non sai cosa vuol dire??? Ma sì che lo sai! Hai la patente, no? Guidi da anni ormai. Cosa hai modo di fare quando vai piano? Dimmi una serie di cose che puoi fare guidando piano! Non lo sai? Te lo dico io. Puoi essere più attenta a quello che ti accade intorno, puoi concederti un sguardo al panorama, o una fermata per sgranchirti le gambe oppure, che so, puoi cantare mentre guidi. Di certo puoi goderti di più il viaggio. E se sei partita per tempo puoi anche evitare le ansie dei ritardi e non lasciare che nessuno rimanga per strada ad aspettarti". 

Il monologo è bello. Ma tu sei e resti sempre un genitore. Che per questioni anagrafiche ne ha viste tante. Ne ha passate tante. Come quando essendo fortemente in ritardo sull'orario di partenza e decidi di prendere l'auto anziché il treno diretto per la stazione di Bologna Centrale la mattina del 2 agosto 1980. E per quella fretta, di ieri, di arrivare, oggi sei qua a raccontarlo. E sei diventato genitore. Con un idioma quasi incomprensibile per i tuoi figli.
Forse, meglio così.


Diversità

Che poi scrivere serve molto più a me che agli altri. Che è l'unica cosa che non mi fa sentire i dolori, il tempo perso, la vita che passa. Serve a sentirmi eternità e passato, a ricordarmi che quello che è stato a qualcosa è servito, che forse ho lasciato traccia nella vita degli altri. Perché il tormento di noi viventi è di passare senza che nessuno se ne accorga. Per questo qualcuno figlia, e qualcun altro sente il bisogno di creare bellezza. O bruttezza. Essere ricordati è così importante che a qualcuno va bene anche se succede nel male.
A tratti mi sembra di essere oltre. In fondo ho capito di aver scelto, e da parecchio tempo, di spendermi per gli altri piuttosto che essere qualcuno. La mia vita tutto sommato è già stata, ed è stata nell'amore per la vita.
E allora perché il tormento resta? Perché manca sempre un gesto, un tramonto, un bacio per sentirsi completi? Vivo nel servizio altrui e mi perdo nel sogno di una vita lontana, dove ho già conosciuto i gesti, le mode, le persone. Le ho toccate, amate, perdute. Le ho rese felici per attimi che ricordo come eternità e le ho viste andare, incontro ad altre storie lontane dalla mia, come se il contatto non ci fosse mai stato. O forse no.
Difendo la diversità e strenuamente mi batto per sostenerla, ma la mia sembra essere unica, e non contemplata da quasi tutti gli esseri incrociati. Pretendo, voglio, rubo, con gli occhi e con l'anima, ma restituisco a piene mani, col sorriso e con le lacrime, con sudore mai compreso. Mai pagato. Sento battiti di cuore che non hanno età e mai l'avranno. Anche quando stanchi decideranno di cessare. Ma penso che io sarò, comunque. E sinceramente, sapere dove, come e quando comincia a stuzzicarmi molto di più di quanto facciano gli aneliti terreni.


Augurare rispetto

Se mi piace cucinare lo devo ai miei nonni. Non perché fossero grandi cuochi, ma per il rispetto verso le materie prime e la grande attenzione che mettevano nella preparazione dei piatti. Che secondo me venivano buoni perché si sentivano curati e coccolati. Già, ai cibi non piace essere strapazzati e mischiati alla rinfusa e se li prepari con amore se ne accorgono e si dispongono più volentieri in maniera armoniosa.
Fin da piccola ho imparato la precisione nel dosare gli alimenti con la bilancia a due piatti di legno, marmo e rame con i pesetti di piombo, talmente grande da non entrare in nessuna cucina moderna, e la pazienza necessaria per stendere la pasta su un piano di legno ormai concavo per l'usura nascosto sotto un'alzatina di cucina. Che siccome era pratico ora nessuno più produce. Di nonna conservo due teglie di alluminio formato famiglia (allargatissima) che mi sono portata a casa e che mai userò. Di nonno invece custodisco i gesti regolari delle mani che sciacquano il baccalà sotto l'acqua corrente ogni mezz'ora, per tutta la giornata, e gli odori delle spezie utilizzate per frollare la cacciagione, che mai più mangerò.
La conoscenza e la coscienza di oggi mi impediscono di mangiare uccelli, interiora e cuccioli di animali, di cui un tempo si faceva largo consumo. Ma questa è un'altra storia... Oggi voglio parlare di cosa significava vedere i miei nonni al lavoro. Era come andare a scuola a leggere un libro di cui sapevi che prima o poi avresti dimenticato tutto. Perché quello che c'era scritto in fondo non importava più di tanto. I miei nonni non mi hanno lasciato libretti di istruzioni ma modi di approcciare le cose, di manovrare la materia. Modi misurati e sapienti, a volte sbavati dall'improvvisazione ma mai sbagliati. Mia nonna bruciacchiava regolarmente tutto quello che cucinava. Ma quando ci sedevamo a tavola eravamo tutt'altro che tristi. Mangiavano nel tempo necessario, parlavamo, ridevamo. Due volte al giorno. Tutti i giorni.
Ci vuole rispetto per quello che c'è in tavola. Rispetto per chi lo prepara. Rispetto per chi mangia a fianco a te. Rispetto, per quello che stai facendo mentre lo stai facendo. Rispetto per il tempo e lo spazio.
Il mio augurio e la mia speranza, in questa Pasqua, è di avere sempre il giusto riguardo per le cose e per tutti gli esseri viventi. Il guadagno è di tutti. 





Metamorfosi

Metti che hai sette, otto anni.
Metti che sei una bambina felice, con una mamma e un papà, tanti amici e un cane. Metti che un giorno ti svegli e il tuo cane non c'e più. E non c'è più nemmeno quella bambina felice del giorno prima. Lo hai visto disteso ai margini di un marciapiede, immobile, con gli occhi sbarrati e il sangue vivo che dalla testa cola lentamente in un tombino.
La morte ti cambia. Quella di ogni essere che ami fino al momento prima di non essere più. E ad ogni morte tu sei una cosa diversa. Ma cosa diventi dopo dieci, venti, cento, mille morti dopo? Bocca serrata e cuore d'acciaio fingi di essere la stessa di sempre. Ma la stessa è assieme ai cadaveri che hai sepolto.
Tu sei altro. Inevitabilmente.

 

Fiamme e sposi

 
No, noi non eravamo anime gemelle.
Quelle sono un'altra cosa. Sono esseri distinti che vivono, agiscono e pensano in modo differente ma sentono le stesse cose, nel profondo e sulla pelle. Entità che vivono la maggior parte delle loro vite distanti pur essendo sempre connessi. Che hanno compagni, figli, case e luoghi diversi, ma stessi sogni, progetti, luoghi del cuore. Che se in questa esistenza non si trovano vagano tutta la vita senza capire cosa gli manca. Le poche che hanno la fortuna di incontrarsi sentono di conoscersi da sempre. Sentono di aver finalmente trovato quello di cui sentivano la mancanza. Entrando di nuovo in risonanza scuotono il mondo, dimostrando la potenza dell'amore, che si crea e mai si distrugge. E quando si lasciano sanno che non succederà mai per davvero.

No, noi non siamo anime gemelle, ma siamo sposi. Due persone che amano l'altro per quello che è, che non vogliono cambiarlo. Che amano l'altro con tutte le proprie forze. Che respirano insieme e insieme costruiscono, cadono e si rialzano. Le anime gemelle non hanno possibilità di scegliersi, gli sposi invece lo fanno, consapevoli e convinti. E con quella convinzione che li contraddistingue scelgono di camminare fianco a fianco, sulle ali degli angeli e nelle fiamme dell'inferno, in terra, dove si sono conosciuti e scelti. Hanno il compito di dimostrare come è possibile creare dal nulla quella vibrazione che dà energia e sostanza. Forse saranno future anime gemelle in un'altra vita, chissà.

Ma io che sono fiamma e sposa so. So che fiamme e sposi bruciano. Ardono e si consumano dello stesso amore. Quello che accende di luce il giorno e che impuntura il cielo, la notte, di stelle.



Ancora o basta


E voi che siete? Un "ancora-ancora" o un "basta-basta"?
Ad un ancora-ancora la vita non basta mai. Ha sempre fame, e sete, di novità, di persone nuove, di posti sconosciuti. Ha sempre voglia di esplorare i tempi, ha un passato da capire e un futuro da sognare. Per un "basta-basta" invece è tutto molto relativo. Ed è sempre tutto troppo. Il tè nella tazza è sempre più di quanto vorrebbe berne, il cibo nel piatto più di quanto riuscirebbe mai ad ingerire.
Per un basta-basta d'estate fa sempre eccessivamente caldo e la luce del sole è sempre troppo forte, fastidiosa, come l'acqua della doccia sulla faccia: eccessiva davvero. Un basta-basta si trova a disagio quasi in tutte le situazioni e in tutti i luoghi, che sono sempre un po' scomodi e inadeguati rispetto a come dovrebbero essere. Ogni uscita di casa è disturbata dal troppo vento, dal troppo rumore, dal troppo tempo passato insieme agli altri e nel mondo.
Un basta-basta sostiene che gli ancora-ancora non si accontentino mai, ed è convinto che lui sia sempre nel giusto, ma in verità è esattamente il contrario. Il principino basta-basta si comporta da pesce fuor d'acqua ogni volta che esce dalla sua zona di comfort, lo sprovveduto, ingenuo ancora-ancora è aperto a qualsiasi situazione, perché si trova bene praticamente ovunque guardando il mondo con lo stupore di un bambino, con apertura e fiducia verso il prossimo. Anche se talvolta inciampa e cade. E si fa pure e spesso tanto male. Ma ad un ancora-ancora cosa volete che importi...

Anniversari


Dissi "Devo parlanti, è importante". Dopo una breve conversazione telefonica lui rispose che mi avrebbe raggiunto in pochi minuti. Appuntamento sulla piazzetta, in cima alla ripida scalinata che saliva dalla spiaggia, divorata due gradini alla volta col cuore in gola. Cinque minuti di silenzio prima di trovare il coraggio di aprire bocca, poi uscì soltanto un "te lo scrivo". Presi carta e penna da un blocchetto assicurato con una ventosa al parabrezza, esitai un attimo, poi scrissi velocemente cinque parole. Seduta nella sua macchina, la maglietta sopra il costume, lui in piedi, vestito di tutto punto, poggiato allo sportello aperto, gli porsi il bigliettino, lui lo lesse. Muovendo impercettibilmente la testa aveva spostato il suo sguardo in basso, sulla sinistra, per qualche secondo di troppo. Nel suo gesto riconobbi soltanto un po' di imbarazzo e il conforto di una conferma ricevuta, ma null'altro. Eppure c'era dell'altro nella sua espressione, che colsi comunque ma ignorai, in quel mentre infinito che impiegò per rimettere di nuovo i suoi occhi nei miei. In quel momento ero la ragazzina più felice del mondo, quella che era riuscita ad ammettere per la prima volta l'incoffessabile e che dopo un suo "Ciao, ci sentiamo" imboccava di nuovo quelle scale, stavolta in discesa, quasi volando, per ritornare sulla spiaggia senza nemmeno una parola di risposta alle sue.
Andai dritta verso il mare, mi buttai in acqua a testa bassa e nuotai, nuotai metri e metri a delfino, per un tempo indefinito. Cantando forte, in apnea, mentre guadagnavo il largo. Quando ripresi fiato mi accorsi che la riva era lontana. Alzai lo sguardo al cielo, di un azzurro così intenso da perderci la testa. Chiusi gli occhi, sentii forte l'odore del sale e assaporai la quiete silenziosa dell'acqua di settembre. Guardando il mondo e le persone da lontano, distanti, non solo nello spazio.
Sì, lo sapevo: avevo appena dato inizio alla mia vita da adulta.

#12settembre1982 #12settembre2022




Leggi

Leggi, leggi, che non resti fulminato dopo la terza riga. Leggi le parole scritte, perchè al contrario di quelle parlate, che restano sospese nell'aria, attraverso gli occhi vanno dritte dove devono andare. Nel cervello, per farlo pensare. Nel cuore, per farlo sentire vivo. Nel sangue, per sentirlo bollire nelle vene. Sotto la pelle, per farla vibrare ogni volta che leggi un pensiero che ti smuove dentro.

Leggi con gli occhi, leggi! Che non perdi tempo ma lo guadagni. Perché dietro a quello che leggi c'è qualcuno che per scriverlo ha pensato, ha studiato, magari ha capito prima di te o magari non ha capito affatto, e anche solo condividendo la sua ignoranza e le sue perplessità fa crescere in te un dubbio, una speranza, una certezza. O ti fa sentire una carezza.

Leggi, che ci sono storie che puoi trovare  solo nelle parole scritte, storie che sarebbero andate perse nel vuoto se non fossero state scritte, storie fantastiche, storie incredibili, storie assurde, come solo quelle reali possono essere. Leggi prima di dimenticare chi sei e da dove vieni, leggi per l'orgoglio di parlare la tua lingua. Leggi, se non vuoi che si perda.

Sei ancora qui? Allora leggi anche la musica che c'è nel ritmo delle parole messe in fila, perché quando scrivi non puoi tirarle a caso, ma devi aver cura di dargli una sequenza, un senso, un suono. Che se piace a te magari piace a qualcun altro, perchè ci si assomiglia anche nel modo di usarle le parole, che dicono quello che senti e come e perchè senti.

Leggi le parole scritte senza immagini, che senza non lo sono affatto, perchè ti danno modo di metterci tutte quelle che vuoi, quando e come vuoi, apporle, sovrapporle, scambiarle. Leggi le parole scritte in silenzio, così da riempirlo con la colonna sonora che preferisci, gli effetti sonori che condiscono la punteggiatura, e tutte le note giuste che saprai trovare.

E stupisci quando, dopo aver finito e messo via, riprenderai quello che hai già letto. Ci troverai altri suoni, altre immagini, altre sensazioni. Perchè le parole scritte sono mutanti, hanno il pregio di cambiare forma insieme alla tua. Indossano, in ogni tempo, in ogni luogo e per ogni persona, un vestito sempre diverso. Per essere sempre nuove e affascinanti, e non stancarti mai.

Leggi...


[Caterina Somma]

Genitori e guerre mondiali


Noi genitori che dopo due anni di segregazione, attoniti, guardiamo i nostri figli e non sappiamo come spiegar loro quello che succede. Noi che con la pandemia pensavamo di aver assistito a qualcosa che non sarebbe mai potuto accadere. Noi che credevamo bastasse ricordare ogni anno nelle scuole gli orrori della guerra affinché non si ripetessero più. Noi che non troviamo più parole per giustificare il ripetersi di tali eventi. Noi, cosiddetti adulti, che dovremmo dare l'esempio alle nuove generazioni che non si fidano più di noi e ci accusano di parlare a vanvera e di non fare mai i fatti. Noi che non sappiamo se l'aria di domani per i nostri figli sarà respirabile e non sappiamo nemmeno se verrà un domani. Noi cosiddetti grandi, disperati, che non abbiamo più una bussola su cui orientarci per non far perdere la bussola ai nostri figli.
Dove troveremo occhi per vedere il cammino e parole per motivare le nostre ragioni. E per dire quello che non capiamo più.

 

La Gioia

E meno male. Ho visto quello che volevo vedere da tempo. Al di là della violenza che si è acuita nelle persone con scarso equilibrio, che hanno vissuto la pandemia in modo repressivo e punitivo, quello che speravo e credevo si sta verificando. Sono i giovani a farlo. Sono loro che con grinta e follia hanno capito come gestire l’eccesso di energia e convogliarlo, finalmente, in qualcosa di positivo. Lo hanno sempre fatto? No. Generazioni precedenti che l’hanno usato per protesta, per distruggersi, punirsi, combattere una società che non gli corrispondeva, credendo di doverla urlare più forte la loro rabbia per farsi sentire, giustificando a tal fine anche la violenza.
Ma i ragazzi di oggi no. Un secolo di storia forse gli ha insegnato qualcosa.
Hanno imparato che i confini non esistono. Che il diverso è ciascuno di noi. Che non c’è interesse personale senza interesse globale. Ma soprattutto hanno recuperato una cosa che sembrava scomparsa negli ultimi decenni, qualcosa di cui pochi sapevano già l’importanza e la potenza: la gioia.
L’ho vista, l’abbiamo vista tutti in questi giorni, negli sguardi attoniti di chi si stupisce di raccogliere un successo, nell’esultanza di chi non esita ad abbracciarsi e piangere senza aver paura di tradire un sentimento. In chi guarda la medaglia con orgoglio e mai si sogna di togliersela dal collo. In chi canta con la bandiera negli occhi che non è un vessillo di parte ma un motivo d’orgoglio e la memoria degli sbagli. Negli artisti che mettono a disposizione di tutti le loro doti. L’ho vista nell’unica espressione costruttiva che può avere l’energia incanalata, pura, cosciente, usata e sfruttata senza esitazione nell’unico verso possibile per la vittoria e la rinascita.
Spero di vederla davvero la rinascita del mondo, grazie ai giovani, chi altri sennò. Quella definitiva, che lascia a margine tutto quello che abbiamo capito che non paga. Se così sarà, l’onda d’urto sarà in grado di trascinare anche quelle che finalmente diventeranno le minoranze, quelli che non credono, non sperano, non sognano. Che un giorno non ci saranno più, perché saranno accolti, compresi e amati, per quelli che sono.
Ragazzi belli, dategliela una lezione a chi non sa mettersi in gioco, a chi sceglie la comodità invece dell’impegno, a chi ha vissuto tutta la vita all’ombra, a chi si nasconde dietro gli errori di altri, a chi crede che basti un virus mortale per fermare l’evoluzione. Tutto va. Avanti mai indietro. E non c’è futuro per chi non se ne accorge. 




Io sto coi miei

E il vaccino, e la cura, e le prospettive. E i negazionisti, e i no-vax, e quelli che la scienza è sacra. E quelli che magari fossi il primo e quelli che sperano di essere gli ultimi. E i dpcm, e le zone a semaforo, e i banchi a rotelle, e abbasso la moneta. E quelli che ho paura di essere tracciato, e quelli ho paura di essere obbligato. E le percentuali di malati e di morti, e le percentuali di chi se l'è fracassate o di chi s'è già buttato sotto a un treno. Di quelli che hanno perso il lavoro, e di quelli che sanno che non lo ritroveranno più. E quelli che si arrabbattano in rete e sorridono sempre e comunque, che poi quando si spegne la telecamera hanno solo un muro per sbatterci la testa. E quelli di 'che belli tutti 'sti gabbiani in città', che non si accorgono che ce ne stanno tanti perché nelle strade c'è un esercito di mondezza, la nostra, sempre troppa, sempre di più. E quelli che 'hai sentito, ha cantato la civetta', e non sentono una donna che piange. E chi cerca tra le stelle, i sassi, le nuvole. E i funerali, tanti, troppi, di chi è fortunato perchè qualcuno l'ha toccato prima di morire. E tutti gli abbracci che mancano, tutta la fiducia che s'è persa, tutta la speranza che non si trova più. E quelli che chi se ne frega e chi se ne frega troppo, e stanno tutti male, belli e brutti, grassi e magri, malati che non si possono curare, sani che si chiedono se è vero che lo sono davvero e per quanto ci resteranno. E chi pulisce, e chi sporca, chi bestemmia e chi prega. Chi ammette che pensava che le torri fossero l'apice della tragedia, chi pensa che il proprio gatto sia l'extraterrestre che controlla lo sfacelo della razza umana. Chi darebbe oro per due salti in discoteca, chi pagherebbe per fare due bracciate, chi non fa altro che urlare ai quattro venti che la musica dal vivo è un affetto stabile. E manca, come manca tutto quello che serve, quello che serve davvero. E io penso che quelli con cui ho avuto un contatto durante questo tempo sono quelli con cui vorrei avere un contatto per sempre. Quelli con cui non hai bisogno di parlare, quelli che sentono come te, quelli che stavano male già prima della pandemia, che erano in crisi già prima della crisi. Perché percepivano, intuivano, cercavano disperatamente il modo di cambiare il mondo, e se stessi. Io sto con quelli, e con quelli voglio restare, in salute e in malattia, finchè destino non ci separi. E non ho detto morte. Quella è solo una conseguenza della vita.
La dieta la cominciò lunedì, quello nel 2021, e non è per la prova costume della prossima estate. Hai visto mai che prima o poi a qualcuno venga ancora voglia di stringermi tra le braccia. 

La propria parte


Credo che nella vita il rapporto più importante sia quello che si ha con la propria coscienza. O meglio, con il dialogo interiore che c'è tra il proprio cervello e il proprio cuore. Quello che consente di essere in pace, con se stessi, con gli altri, con il mondo in cui si vive, con la società. Molti dei miei comportamenti derivano da questo rapporto, l’unico con il quale ho a che fare quotidianamente, dove qualche volta mi assolvo, molto più spesso mi condanno, ma comunque mi metto in discussione. Quello che mi consente di prendere posizioni e decisioni, qualche volta giuste, qualche volta sbagliate. Ma prese sempre dopo un minuzioso esame. Di coscienza.

E’ vero che mangio sano e curo il mio corpo e il mio spirito e che 23 ore su 24 penso positivo, ma non ho la presunzione di credere che siano questi i motivi per cui non mi sono ammalata. Cerco di fare di tutto affinché il mio sistema immunitario funzioni bene e per avere un adeguato livello vibrazionale, credo perfino che Dio mi ami, ma fondamentalmente attribuisco il mio essere sana e ancora viva ad una mera questione di culo. Già. Questo però non mi dà l’arroganza di credere che mi andrà sempre bene e che il mio comportamento non influenzi le persone e le cose che mi circondano. Lo fa eccome.

Non indosso le mascherine perché è stato un governo ad impormele. Le indosso perché ritengo che siano una seppur minima attenzione in più verso i più fragili, a cui potrei trasmettere inconsapevolmente qualcosa, e verso gli operatori sanitari, che da mesi lavorano con questi presidi 6/8 ore al giorno tutti i giorni e non fanno una piega, indipendentemente dallo stipendio che percepiscono e incuranti dei danni che potrebbero subire, le indosso pure per rispetto nei riguard di chi non ne ha affatto per me. Non mantengo il distanziamento per ordinanza ministeriale, ma perché ritengo che sia l’unico modo per evitare la circolazione del virus. E il cielo solo sa quanto mi costi, a livello fisico, la mancanza di ossigeno, e a livello emotivo, la mancanza di abbracci e il fatto di sentire l’alito, magari anche cattivo, di un amico che mi parla ad un palmo di naso. Mi dico solo che sto facendo un sacrificio necessario. Voi non ne avete mai fatti? Perché questo vi spaventa? In una visione globale, della vita, del mondo e della storia, a me sembra anche assurdo chiamarlo sacrificio. Mascherine e distanziamento non mi fanno sentire un misantropo, non mi impediscono di avere una vita sociale, non mi impediscono di dare e ricevere amore. E soprattutto non mi fanno sentire privata di alcuna libertà. Al contrario mi sento libera di vivere e rapportarmi agli altri a testa alta e con orgoglio, quello di una persona sana che ragiona ed agisce con la propria testa. In alcuni momenti della mia esistenza con maggiore prudenza che in altri, non per questo svilita, oppressa, vittima di complotti o soggetta a manipolazioni. Di cui ho comunque consapevolezza, nei limiti di quello che la mia mente può arrivare a ipotizzare o dedurre. Corriamo il pericolo di diventare pedine o automi, in mano al potere? In certo qual modo l’umanità lo è sempre stata… Perché vi fa paura, oggi? Per quanto io mi sforzi, manifesti, mi opponga, sarò sempre manovrata da qualcuno più potente di me.

Io posso solo fare la mia parte. Che consiste nel pensare ed agire con la capacità e l’energia che mi è stata data, per quello che ritengo sia il bene di tutti. Qualche volta ubbidendo, talvolta ribellandomi, ogni tanto sovvertendo le regole imposte. E non mi ritengo così illuminata da sentire il dovere di aprire occhi e menti altrui. Credo che chiunque abbia un minimo di capacità critiche sia in grado di distinguere il bene dal male, e agire di conseguenza. Non sono uno stinco di santo. Ma differenzio i rifiuti con attenzione anche se so che qualche disonesto li riammucchia e li sotterra tutti insieme. E anche se decenni fa ho buttato il microonde perché mi faceva venire l'emicrania non vivo col terrore degli effetti del 5G (che pure ci saranno), di essere schedata (già lo siamo da tempo e siamo stati noi a volerlo) e dei microchip inseriti nei vaccini (che tanto non farò). Viviamo già in un mondo già irrimediabilmente inquinato e siamo già tutti incasellati. Non voleste esserlo, dovreste vivere in un posto sperduto, senza elettricità, acqua, senza televisori, cellulari e pc. Senza vestiti, senza riscaldamento e aria condizionata. E da soli.

Non dico che dobbiamo farci andare bene ogni cosa in nome del progresso e del benessere conquistato. Affatto. La legge non ammette ignoranza. E nemmeno io. La crudeltà, la mancanza di rispetto per gli esseri viventi e per l'ambiente, l'egoismo, la cecità derivano sempre e solo dall'ignoranza. Proprio per questo dico che l’unica arma che abbiamo per combatterla è dare l'esempio. Io non mi aspetto che lo Stato venga prima del buon senso. Non quello Stato che sa che la combustione ci soffoca ma non fa nulla per convertire velocemente fabbriche e industrie e quello che producono, lo Stato che sa che il fumo fa male ma continua a commerciare e distribuire sigarette di cui ha perfino il monopolio. Quindi…

Se non uso deodoranti in spray, non mangio coloranti e conservanti, non consumo droghe, non compro più la plastica, cerco di evitare la grande distribuzione per scansare gli imballaggi, mangio meno carne, consumo uova biologiche di galline non maltrattate, chiudo il rubinetto quando mi lavo i denti, scaldo l'acqua con i pannelli solari e ho da anni una macchina elettrica, non è per tacitarmi la coscienza.
E’ per fare la mia parte.
Che consiste anche nel dare l’esempio. Anche nello scrivere quello che scrivo.
E per esercitare il diritto di vivere in questo tempo. Coltivare i miei sogni. E magari di essere felice.

© Caterina Somma

Oltre i Soldi

Subisco sempre il fascino di una bella dentatura e nutro una sana invidia per quei sorrisi larghi, positivi e lucenti made in USA. Durante la mia infanzia mi dicevano che gli americani avevano quei bei denti perchè per prevenire i danni del tempo se li incapsulavano fin da piccoli correggendo, visto che ci si trovavano, eventuali difetti estetici. Forse era davvero così, forse questa storia era solo una leggenda legata al fascino degli yankees negli anni del benessere economico.
A dire il vero, notavo lo stesso candore e la stessa perfezione nei denti degli africani, in quel caso però mi si diceva che quella era solo "una caratteristica della razza". Il che, nel mio cervello, avrebbe dovuto significare che i neri erano più belli e più fortunati. Invece non era proprio così. Era più che altro "gli americani so' furbi e i denti se li sistemano ad arte per essere fighi, gli africani hanno almeno questa fortuna nella vita".

Per quanto riguarda la mia educazione, in anni in cui in Italia un bambino di colore alle elementari era visto e trattato come un alieno, ho avuto la fortuna di avere un maestro e un padre che mi spiegavano la storia e la genetica facendomi vedere i mostri che nascevano nelle famiglie nobili dall'unione tra consanguinei e spiegandomi che gli americani sono belli perché più le razze si mischiano meglio è (per buona pace di chi dice che non esistono).
Molti scienziati contemporanei sostengono che dal punto di vista genetico nel caso degli umani non ha senso parlare di razza, ma è innegabile che gli individui possano essere classificati in base ai loro tratti fisici, quelli che nei secoli dei secoli si sono differenziati a seconda delle condizioni ambientali circostanti, il clima, l'alimentazione, le ore di luce, ecc. E che male c'è in questo? Noi, abitanti della terra del terzo millennio, dovremmo essere fuori dalle tentazioni delle discriminazioni razziali. Dovremmo.

Qualche anno fa scelsi di non occuparmi di politica perché poco ne so e poco mi interessa, convinta che la politica si fa con l'esempio, vivendo la propria vita secondo le proprie convinzioni ma nel rispetto reciproco, secondo quegli ideali di uguaglianza, libertà e fraternità dei rivoluzionari francesi che condivido e che non mi è mai pesato promuovere. Mi viene spontaneo. E anche se ai ragazzi d'oggi che respirano e vivono una realtà globale multietnica fa orrore sentir parlare di razza, io questa parola la uso ancora quando mi serve per spiegare che la diversità esiste, ma è l'unica vera grande ricchezza dei questo mondo ed è l'unica cosa che riesce a garantirci la sopravvivenza. La natura ne è l'esempio più fulgido. Sono le diversità a far sì che l'ecosistema sia in equilibrio. E se ora questo equilibrio non c'è più la colpa è solo di quegli umani arroganti e presuntuosi (per non dire stupidi e assassini) che hanno creduto di sapere chi sterminare, dalle foche agli ebrei.

Ho ascoltato le canzoni del Festival di quest'anno un po' annoiata e un po' infastidita, non mi sono piaciute, faccio fatica a seguirne i testi, non le capisco; ma non per questo mi arrogo il diritto di sputarci sopra o di metterle al rogo. Credo che si debba avere sempre un atteggiamento rispettoso e curioso nei confronti di chi gode di una grande popolarità. Se uno ha successo c'è sempre un motivo, anche se in molti non lo capiscono. Per quanto mi riguarda, nei limiti del possibile, cerco di sforzarmi a capire. Qualche volta ci riesco.
E' per questo che non ho provato nessuno stupore nel vedere la classifica finale. Non ho gridato allo scandalo per la poca considerazione del pezzo della Bertè, nè per la vittoria di Mahmood. Ritengo che il podio di Sanremo sia sempre stato coerente con la società in cui viviamo, anno dopo anno. E anche quest'anno non ha fatto eccezione.
Il Volo? Presenti! La tradizione, nel paese del bel canto, non può mancare.
Ultimo? Ovvio che ci sia. Se la contestazione è fatta bene viene sempre premiata, specie dal televoto.
Mahamood? Come potrebbe non essere lui il vincitore?
Lo dico a giochi fatti, è ovvio, ma questa mia analisi è sincera e tenta di dare risposte ai miei perché. Magari anche a quelli di qualcun altro.

Mahmood esordisce a X-Factor nel 2012 e, seppur eliminato presto, grazie alla trasmissione ottiene visibilità e popolarità. Nel frattempo scrive. Scrive. Tre anni dopo ottiene la vittoria di Area Sanremo che lo fa accedere alla sezione “Nuove Proposte” del Festival di Sanremo 2016. Arriva quarto con “Dimentica”. Ma la vera vittoria personale è iniziare a lavorare come autore per altri artisti (Elodie, Michele Bravi e Guè Pequeno, Marco Mengoni, Fabri Fibra). Poi il suo primo EP. Poi la sua vittoria nel Sanremo Giovani di questa stagione, da qui il suo accesso a Sanremo 2019.
A chi si chiede perché ha vinto lui rispondo: "Perché no?". Rappresenta la musica dei ragazzi di oggi. Io non lo conosco? Non importa. Io non apprezzo la sua musica? Poco conta. Nel mercato musicale e discografico contano i numeri. Se lui li fa, ha ragione lui.
Qualcuno gli attribuisce un vantaggio legato alla "razza" perché il ragazzo (milanese di madre italiana e padre egiziano) e la sua musica (che lui stesso definisce "Marocco-Pop") potrebbero essere facilmente strumentalizzzato a livello politico e sociale. Qualcuno (più di quanti si creda) vede la sua vittoria con orrore, perchè un ragazzo così è sempre un "diverso", e come tale, osteggiato da menti piccole e ignoranti di chi ha paura, spesso a sua insaputa, di scippi e contaminazioni.

Ma io credo semplicemente che Mahmood rappresenti quel mondo multietnico e vivaddio universale che le nuove generazioni vivono senza problemi, con naturalezza ed entusiasmo.
Forse è così. E non c'è niente di male.

@Caterina Somma



Canzonemozione


Chissà perché mi tocca ripetutamente esporre un concetto che a me sembra ovvio e scontato da una vita. La musica è una forma d'arte. E l'arte è essenzialmente emozione. Qualcuno obietta: no, prima di tutto è bellezza. Io obietto a mia volta: sai che ci fai con la bellezza se non ti procura nessuna emozione.

Twittavo così stamattina, presa da rabbia inconsulta (se mi prende è bene) per certe critiche sulle voci degli interpreti sanremesi. Ribadisco: Sanremo dovrebbe essere, anzi lo è per definizione, il Festival della CANZONE italiana, non dei CANTANTI. Per questo motivo, e per il concetto espresso prima - trovo  assolutamente inutile stare lì a scannarsi sulle qualità vocali di Tizio e di Caio, perché non è in base a quello che si dovrebbe decretare la canzone vincitrice di Sanremo.

Ripenso alle parolacce che incassava in diretta Lucio Battisti da parte di presuntuosetti sessantottini sventolanti la bandiera della Cultura nelle trasmissioni televisive di Arbore, che lo accusavano di non avere voce, di non saper cantare. Chissà se oggi in macchina canticchiano Contessa (quella di Pietrangeli non quella dei Decibel) oppure Acqua azzurra acqua chiara...


Allora... in base a cosa bisogna giudicare?
E qui tocchiamo un altro concetto che sento spesso, e ancora, che mi fa andare in bestia: quello che il testo di una canzone, per avere un valore, debba necessariamente dire qualcosa di "serio", di impegnato. Sì, perché c'è tanta gente che la pensa così. E c'è n'è invece altrettanta che invece considera un testo "bello" solo se denso di sentimento, di parole che trattano temi universali come l'amicizia e l'amore.

Non sto dicendo che la canzone non possa parlare di politica o non essere impegnata, anzi. Dico solo che la musica è musica, e qualsiasi aspettativa le si attribuisca all'infuori del piacere di ascoltarla, la snatura. Anche perché per fare "politica" attraverso una canzone non devi necessariamente scrivere La Locomotiva o Don Chisciotte di Francesco Guccini. Pensate a quanta ne ha fatta in maniera molto più ficcante e duratura Edoardo Bennato nei suoi album, da Burattino senza fili in poi. A quanta ne ha fatta De Andrè e perfino Lucio Dalla.

 

Amo e lodo sempre l'impegno, quello che mi annoia è la retorica: e questo vale sia per i testi delle canzoni sia per la costruzione musicale di un brano. E anche se sarebbe possibile giudicare tecnicamente un pezzo analizzando il ritmo, la melodia, l'armonia, l'unione dei timbri o i colori, la verità è che non esiste niente in grado di definire una canzone "bella" o "brutta" in assoluto.
E allora cosa resta per giudicare?

Torno a bomba.
Quello che resta è l'emozione, cosa assolutamente soggettiva e quindi variabilissima da persona a persona, da cultura a cultura, da un'età all'altra. 
Il fatto che il gusto personale, alla fine, predomini su tutto, è meravigliosamente umano. E' quello che ci rende dissimili gli uni dagli altri. Quello che rende il mondo variopinto.
Già.
Per fortuna è così.
Lasciate che ognuno abbia il suo.

© Caterina Somma




Per quanto mi riguarda...

Il brano che mi ha colpito al cuore e che mi fa venire i brividi
Almeno pensami, l'inedito di Dalla. Sarà un pezzo minore, ma è comunque un'impronta unica di un poeta che non c'è più. Perché Ron l'ha cantata con umiltà. E perché i piccioni mi stanno simpatici.

Una canzone che mi piace
Passame er sale di Luca Barbarossa: sarà classica o antica che dir si voglia, ma è diretta, onesta, tenera.

Il pezzo per cui faccio il tifo?
Stiamo tutti bene. Perchè non ci stiamo affatto.
E perché non si deve avere necessariamente la voce da cantante per smuoverti qualcosa dentro 
(e perché sinceramente nella categoria Giovani è l'unica cosa che riesco a digerire).




 

Il Mago e il cane


Seguo il Festival da sempre, e per anni ho studiato, intervistato, partecipato, commentato e criticato le vicende e i personaggi che avevano a che fare, direttamente o indirettamente, con Sanremo. Ma non nego che ieri sera mi sono seduta davanti al monitor con una curiosità maggiore del solito. Sarà che Baglioni sta nel sangue della mia generazione come un componente essenziale, e che nel mio ci sta un po' di più per il legame che ho sempre avuto con lui, professionale e personale, ma “prima della prima” ero più emozionata del solito, in attesa di un evento a cui mai avrei pensato di assistere (Claudio direttore artistico?!?) ma, comunque, senza particolari aspettative, solo estremamente partecipe, felice, in attesa. Di cosa?

Mi rifaccio a quello che scrissi sull’inserto speciale dell’importante rivista settimanale per cui lavoravo una decina di anni fa, incarico che il nuovo Direttore mi affidò senza indugio pur non conoscendomi bene, perché secondo lui io possedevo la “sensibilità giusta” per affrontarlo. Lasciò a me anche gli strilli di copertina, e la cosa andò bene, tant’è che fui abbondantemente lodata dopo aver visualizzato numero di copie vendute quella settimana. Di quell’edizione sinceramente ricordo poco, se non il fatto che a chiusura del mio articolo introduttivo facevo e “mi” facevo un augurio: quello di poter assistere finalmente ad un Festival in cui tornasse protagonista la Canzone. Quella con la c maiuscola. Quella latitante, su quel palco, da un bel po’ di tempo.

Purtroppo il mio augurio rimase tale, e non solo per quell’anno, ma per molti anni a venire, e mentre nel paese del bel canto latitavano gli Autori e scomparivano per sempre i Produttori, spuntavano invece come i funghi i prodotti da talent. L’industria discografica cercava di tamponare la crisi confezionando brani-pacchetto da vendere tramite la più grande vetrina musicale televisiva, non capendo (ma è possibile mai?) che così facendo si scavava la fossa ancora di più. Promuovendo prodotti sui quali era impressa un’ineluttabile data di scadenza ancora prima di essere immessi sul mercato.

Ritorno al monitor, e ritorno alla mia emozione nell’aspettare Baglioni/Mago apparire (è il termine giusto) su quel palco. E lui - non so se volutamente o meno - mi fa pure stare col fiato sospeso, temporeggiando qualche secondo in più prima di apparire in cima alle immancabili scale dell’Ariston. E poi compare, con uno smoking corredato da un improbabile papillon, ed è proprio quel particolare stonato che insieme ai suoi capelli candidi mi fanno venire le lacrime agli occhi.
Ma è un problema mio. Sono lucida. Voglio vedere il Festival.
Conoscendolo, so già che gli perdonerò la sua aria impacciata, le gaffe, le pause, la sua goffaggine, i suoi sorrisi miopi. Che me ne importa. Quello che mi importa è di scoprire se il lavoro che gli è stato affidato lo ha fatto bene o male: avrà scelto con oculatezza brani e interpreti, avrà fatto quello che riteneva giusto, quanto sarà stato influenzato dalle case discografiche? Ho mille domande, e so che la risposta l’avrò tra poco.

La prima serata del Festival di Sanremo l'ho vista. Tutta. L’ho sentita tutta.
Ho apprezzato lo sforzo di Fiorello nel cercare di togliere un po’ d’amido dai colletti di tutti. Non mi sono pesati gli stacchetti e le gag (anzi, ho goduto nell’avere il tempo ripulirmi le orecchie e riprendere il fiato tra un brano e l’altro). Ho apprezzato la scaletta, che credo sia stata decisa con grande maestria, con l’intento di creare subito l’atmosfera giusta, elegante, solenne ma allo stesso tempo familiare, merito anche di una scenografia maestosa e sobria allo stesso tempo, al total black dei vestiti, al tanto bianco delle luci.
Sarà, ma fin dal principio ho avuto l’idea che l’aria fosse diversa, e che fosse un’aria a me gradita.

Sarà stata la magia che si è creata da subito grazie al pezzo firmato Dalla/Ron, che Rosalino ha cantato in punta di piedi, sarà stato il bel pezzo di Bungaro e Pacifico (ok, non è per la Vanoni, ma che importa), sarà stato per le voci di Meta e Moro che gridavano quello che tutti vogliono gridare nei giorni che viviamo. Sarà stato per l’insolita malinconia di Mario Biondi, per la tenera poesia di Luca Barbarossa che con disarmante maestria colpisce dritto al cuore, e pure per la coppia Avitabile/Servillo che porta su quel palco arte e mestiere. E allora mi vanno bene pure i pezzi non così felici, perché finalmente riesco a vedere un festival in cui qualcosa si muove, ed è soprattutto la mia attenzione, che va su e giù, che nel corso della serata mi fa dire “questo mi piace” e “questo non mi piace”.

E’ mezzanotte passata, e ancora ce ne vorrà del tempo per finire di ascoltare tutti i brani, ma sono soddisfatta, potrei anche dire felice. A questo punto mi vanno bene anche i pezzi più scontati, mi va bene anche quello che per me non ha senso, e cerco pure di non essere arrabbiata per il fatto che la regia - come quasi sempre accade - dimentica che su quel palco oltre i sorrisi della Hunziker ci sarebbero anche da inquadrare i membri di un’orchestra che la sua parte la fa, eccome se la fa.

Ma sono troppo contenta: del fatto che dopo quasi dieci anni dal mio augurio sia riuscita a vedere un festival dove le canzoni - quelle che possono orgogliosamente definirsi tali - siano tornate a fare la parte del leone. Contenta che ci sia riuscito Claudio a farlo.

Penso che non vedo l’ora di sentire domani, Mirko e il cane. Perché se stasera ho sentito un Festival di Sanremo che una come me si aspetta di sentire, vorrei, da domani, poter assistere alla nascita di qualcosa di nuovo che possa, un giorno, definirsi “bello” anche fra trent’anni.
Non so se Mirko lo sentiremo ancora fra tanto tempo, ma tra quello che ho sentito dei giovani, lui oggi una cosa è.

Vado a farmi due spaghetti, chissenefrega della dieta.

© Caterina Somma 


C'era una volta il Festival di Sanremo


Mi sono alzata tardi e aprendo gli occhi mi accorgo di essere terrorizzata dal ricordo di questo Sanremo 2016, tra i più orribili, inutili, noiosi e fastidiosi di tutta la mia vita. Il sorriso stampato sulla faccia lampadata poco esemplare di Conti, tronfio per lo share da trionfo*, mi appare continuamente davanti e faccio fatica a scacciarlo. Anche Renato Zero ieri sera era senza voce, scollato e disturbato. E il fastidioso Conti gli ha rovinato pure il "Non dimenticatemi, eh" tipico delle sue uscite di scena, richiamandolo sul palco per correggere l'errore fatto sulla data di uscita del suo nuovo album.
Scaccio continuamente anche le immagini dei bouquet diversificati a seconda del sesso degli ospiti e mando indietro quelli maschili zeppi di simboli fallici. Poi dici che Fiacchini l'ha lanciato al pubblico.

Intontita da cinque serate che avrei potuto sinceramente evitare, continuo a non capire come uno spettacolo del genere possa avere ancora un consenso comunque ampio. E penso che vedere Sanremo oggi è come comprare i regali di Natale ai parenti: pratica "tradizionale" per i buontemponi, "consumistica" per i credenti. Definizioni a parte, sciarpe e profumi firmati sotto l'albero sono tristi come questo triste festival, una vera disdetta per chi ama la musica.

Non è nostalgia, non sto invecchiando. E' che onestamente, considerate le scelte di produttori e discografici di oggi, c'è poco da portare a Sanremo e si pesca in un mare di nulla. Dovesse continuare così preferirei venisse soppresso. In tal caso, un giorno potrei a raccontare raccontare ai miei nipoti una favola che inizia così:  
"C'era una volta il Festival di Sanremo... Dove Zucchero e Vasco Rossi arrivavano ultimi, ma c'erano. Dove Dalla e Battisti guadagnavano sì e no la metà della classifica. Ma c'erano stati. Dove se qualcuno sbagliava gli attacchi o steccava malamente tu ti dispiacevi della brutta interpretazione perché il pezzo era proprio bello. Dove le vallette pensavano a incorniciare la bellezza di un'ingenuità di fondo di tutti noi. Dove si accontentava un po' tutti e tutti venivano accontentati. Dove i fiori della riviera riempivano il teatro i colore e di profumi di una Italia bella che produceva musica bella o anche brutta magari, ma bella ugualmente perché partorita per esclusiva necessità artistica, quindi originale e diversa....".  La favola sarebbe lunga, piena di aneddoti e particolari curiosi.

Se invece il Festival devesse continuare così sarebbe inutile raccontare. Nessuno ci crederebbe mai, anzi, nessuno mi starebbe a sentire. Ecco. Quando le cose non hanno più motivo di esistere dovrebbero solo essere gettate via. Ma vaglielo a dire alla Rai e al Comune di Sanremo.
© Caterina Somma


* Nonostante il successo sbandierato, in realtà lo share relativo all'ascolto del festival è passato dal 68,71% del 1987 (primo anno in cui fu rilevato) all'attuale 49,52%. Se nel 1987 teneva incollati 16 milioni di telespettatori, nelle edizioni del nuovo millennio oscilla tra gli 8 e i 10 milioni. 


Piazzamenti esemplari
1969 - Lucio Battisti, Un'avventura - 9° posto
1972 - Lucio Dalla, Piazza Grande - 8° posto
1983 - Vasco Rossi, Vita spericolata - penultimo posto
1985 - Eros Ramazzotti - Una storia importante - 6° posto
1985 - Zucchero, Donne - penultimo posto
1986 - Stadio, Canzoni alla radio - ultimo posto
1988 - Ron, Il mondo avrà una grande anima - 18° posto
1988 - Raf,Cosa resterà degli anni '80 - 23° posto 
1990 - Mia Martini, La nevicata del '56 - 14° posto
2005 - Negramaro, Mentre tutto scorre - subito eliminati

Più di novanta


Mio nonno aveva lo sguardo fisso. Seduto sulla terrazza della casa al mare, non mi guardava in faccia nè guardava l'orizzonte. Aveva gli occhi posati su un punto indefinito del lastricato di pietra. Aveva compiuto da qualche tempo novant'anni.

"Il brutto di arrivare a quest'età" iniziò "è che i tuoi amici sono quasi tutti morti". E dopo una pausa: "Non c'è quasi più nessuno a cui puoi rivolgerti se hai bisogno di aiuto, nessuno a cui chiedere un consiglio. Nessuno della tua età con cui condividere i tuoi ricordi di bambino".

Non serviva ricordargli che aveva ancora sei figli, nove nipoti e dodici pronipoti; una seconda moglie. Nessuno di noi contava. Nessuno di noi era nato all'inizio del Novecento. Nessuno di noi aveva combattuto le guerre, fatto la fame e assistito alla rinascita e poi al declino di un'Italia che lui aveva visto in così tante forme che noi non ci riusciamo nemmeno ad immaginare.
Un uomo potente che diventava improvvisamente solo, e fragile, e inutile.

Mio nonno visse ancora un po' da quel giorno, ma non molto. Forse perché aveva deciso che non era più così eccitante vivere una vita da non poter condividere con qualcuno che non parla la tua lingua.


Crossroad

Per te è più importante il fine della strada che c'è nel mezzo. Per me è il contrario.
Perché la vita è quasi tutta strada.





top