Il Mago e il cane


Seguo il Festival da sempre, e per anni ho studiato, intervistato, partecipato, commentato e criticato le vicende e i personaggi che avevano a che fare, direttamente o indirettamente, con Sanremo. Ma non nego che ieri sera mi sono seduta davanti al monitor con una curiosità maggiore del solito. Sarà che Baglioni sta nel sangue della mia generazione come un componente essenziale, e che nel mio ci sta un po' di più per il legame che ho sempre avuto con lui, professionale e personale, ma “prima della prima” ero più emozionata del solito, in attesa di un evento a cui mai avrei pensato di assistere (Claudio direttore artistico?!?) ma, comunque, senza particolari aspettative, solo estremamente partecipe, felice, in attesa. Di cosa?

Mi rifaccio a quello che scrissi sull’inserto speciale dell’importante rivista settimanale per cui lavoravo una decina di anni fa, incarico che il nuovo Direttore mi affidò senza indugio pur non conoscendomi bene, perché secondo lui io possedevo la “sensibilità giusta” per affrontarlo. Lasciò a me anche gli strilli di copertina, e la cosa andò bene, tant’è che fui abbondantemente lodata dopo aver visualizzato numero di copie vendute quella settimana. Di quell’edizione sinceramente ricordo poco, se non il fatto che a chiusura del mio articolo introduttivo facevo e “mi” facevo un augurio: quello di poter assistere finalmente ad un Festival in cui tornasse protagonista la Canzone. Quella con la c maiuscola. Quella latitante, su quel palco, da un bel po’ di tempo.

Purtroppo il mio augurio rimase tale, e non solo per quell’anno, ma per molti anni a venire, e mentre nel paese del bel canto latitavano gli Autori e scomparivano per sempre i Produttori, spuntavano invece come i funghi i prodotti da talent. L’industria discografica cercava di tamponare la crisi confezionando brani-pacchetto da vendere tramite la più grande vetrina musicale televisiva, non capendo (ma è possibile mai?) che così facendo si scavava la fossa ancora di più. Promuovendo prodotti sui quali era impressa un’ineluttabile data di scadenza ancora prima di essere immessi sul mercato.

Ritorno al monitor, e ritorno alla mia emozione nell’aspettare Baglioni/Mago apparire (è il termine giusto) su quel palco. E lui - non so se volutamente o meno - mi fa pure stare col fiato sospeso, temporeggiando qualche secondo in più prima di apparire in cima alle immancabili scale dell’Ariston. E poi compare, con uno smoking corredato da un improbabile papillon, ed è proprio quel particolare stonato che insieme ai suoi capelli candidi mi fanno venire le lacrime agli occhi.
Ma è un problema mio. Sono lucida. Voglio vedere il Festival.
Conoscendolo, so già che gli perdonerò la sua aria impacciata, le gaffe, le pause, la sua goffaggine, i suoi sorrisi miopi. Che me ne importa. Quello che mi importa è di scoprire se il lavoro che gli è stato affidato lo ha fatto bene o male: avrà scelto con oculatezza brani e interpreti, avrà fatto quello che riteneva giusto, quanto sarà stato influenzato dalle case discografiche? Ho mille domande, e so che la risposta l’avrò tra poco.

La prima serata del Festival di Sanremo l'ho vista. Tutta. L’ho sentita tutta.
Ho apprezzato lo sforzo di Fiorello nel cercare di togliere un po’ d’amido dai colletti di tutti. Non mi sono pesati gli stacchetti e le gag (anzi, ho goduto nell’avere il tempo ripulirmi le orecchie e riprendere il fiato tra un brano e l’altro). Ho apprezzato la scaletta, che credo sia stata decisa con grande maestria, con l’intento di creare subito l’atmosfera giusta, elegante, solenne ma allo stesso tempo familiare, merito anche di una scenografia maestosa e sobria allo stesso tempo, al total black dei vestiti, al tanto bianco delle luci.
Sarà, ma fin dal principio ho avuto l’idea che l’aria fosse diversa, e che fosse un’aria a me gradita.

Sarà stata la magia che si è creata da subito grazie al pezzo firmato Dalla/Ron, che Rosalino ha cantato in punta di piedi, sarà stato il bel pezzo di Bungaro e Pacifico (ok, non è per la Vanoni, ma che importa), sarà stato per le voci di Meta e Moro che gridavano quello che tutti vogliono gridare nei giorni che viviamo. Sarà stato per l’insolita malinconia di Mario Biondi, per la tenera poesia di Luca Barbarossa che con disarmante maestria colpisce dritto al cuore, e pure per la coppia Avitabile/Servillo che porta su quel palco arte e mestiere. E allora mi vanno bene pure i pezzi non così felici, perché finalmente riesco a vedere un festival in cui qualcosa si muove, ed è soprattutto la mia attenzione, che va su e giù, che nel corso della serata mi fa dire “questo mi piace” e “questo non mi piace”.

E’ mezzanotte passata, e ancora ce ne vorrà del tempo per finire di ascoltare tutti i brani, ma sono soddisfatta, potrei anche dire felice. A questo punto mi vanno bene anche i pezzi più scontati, mi va bene anche quello che per me non ha senso, e cerco pure di non essere arrabbiata per il fatto che la regia - come quasi sempre accade - dimentica che su quel palco oltre i sorrisi della Hunziker ci sarebbero anche da inquadrare i membri di un’orchestra che la sua parte la fa, eccome se la fa.

Ma sono troppo contenta: del fatto che dopo quasi dieci anni dal mio augurio sia riuscita a vedere un festival dove le canzoni - quelle che possono orgogliosamente definirsi tali - siano tornate a fare la parte del leone. Contenta che ci sia riuscito Claudio a farlo.

Penso che non vedo l’ora di sentire domani, Mirko e il cane. Perché se stasera ho sentito un Festival di Sanremo che una come me si aspetta di sentire, vorrei, da domani, poter assistere alla nascita di qualcosa di nuovo che possa, un giorno, definirsi “bello” anche fra trent’anni.
Non so se Mirko lo sentiremo ancora fra tanto tempo, ma tra quello che ho sentito dei giovani, lui oggi una cosa è.

Vado a farmi due spaghetti, chissenefrega della dieta.

© Caterina Somma 


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