Stanno uscendo. Uno alla volta, i minatori cileni intrappolati nelle viscere della terra da oltre due mesi, con la calma indispensabile ad operazioni del genere. Mentre scrivo sono a quota 9 e, ora dopo ora, aspetto che il conto arrivi a 33, cifra fatidica che ha scatenato i patiti di numerologia (uguale alla somma delle cifre della data del salvataggio 13-10-10) e che rievoca pensieri biblici, alimentati dalle dichiarazioni del secondo dei minatori a rivedere la luce del sole, Mario Sepulveda: "Sono stato reclamato da Dio e dal diavolo, hanno combattuto e alla fine Dio mi ha vinto".
Ma noi italiani, questa passione l'abbiamo già vissuta. Quasi trent'anni fa. Nessuno di quelli che, increduli, hanno assistito in diretta all'agonia di Alfredo Rampi, riusciva a immaginare quello che sarebbe avvenuto. La sua voce era lì, solo ottanta metri più in basso, in quel pozzo maledetto. E poi il silenzio. Non riuscivamo a spegnere la televisione. Non potevamo accettare una fine così.
Ventinove anni dopo riviviamo quell'incubo, e ad ogni minatore che risale in superficie risale anche un pezzetto del sorriso di Alfredino, lui che non ce l'ha fatta e che certo starà assistendo a questo salvataggio, guidando i passi e le mani di chi lavora per fare il miracolo.
Tirare fuori. Dal profondo.
Necessita di tanto tempo, è faticoso, fa male.
Occorre pazienza, volontà, aiuto.
Ma quando qualcosa comincia ad uscire, il processo è inarrestabile.
E tu non sei più quello di prima. O forse torni ad esserlo.
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