Carpe diem

Rientro in una delle categorie professionali obbligate ai corsi di formazione, pena l'esclusione dall'Albo.
A dire il vero, per salvarsi dall'estromissione sono sufficienti quindici crediti l'anno, per tre consecutivi, che vengono facilmente attibuiti dopo solo poche ore di corsi, seminari, workshop gratuiti che l'Ordine organizza in tutta Italia.
Partecipo con curiosità agli eventi, senza rientrare nella categoria dei colleghi che si siede all'ultima fila e passa quattro ore consecutive a chattare su Facebook in attesa che suoni la campanella e si possa finalmente mettere la firma per ottenere i sudatissimi crediti. Sono lì, tanto vale che ascolti.
Ne ho già seguiti alcuni di questi eventi. Se non da un punto di vista formativo, valgono almeno come spunto per farti venire dei dubbi. I dubbi sono sempre bene accetti. Non che io non abbia bisogno di "formazione", per carità, è solo che i famigerati "corsi" sono talmente brevi, rapidi e concisi che non possono non essere superficiali. E la superficialità, a me, indigna. Anche se è gratis.

Roma, sabato mattina, Teatro Argentina.
Mi sono iscritta ad un evento dal titolo "Raccontare lo spettacolo dal vivo. Linee guida per una deontologia nella critica di oggi". Finalmente un argomento che mi interessa. Dopo 20 minuti di fila per l'accredito assisto ad una prima parte - quella prima della sacrosanta, intoccabile "pausa caffè" - dove si parla di critica teatrale, tra colleghi che si occupano da sempre di teatro sulla carta stampata, sul web, sulle reti Rai, radio e televisive. Teatro, teatro, teatro. Testate di critica teatrale on-line, giovani imprenditori che scrivono per amore verso il teatro, giornalisti della rete che formano altri giornalisti a diventare professionalmente disoccupati, come loro. Anzi, mi correggo, occupati, ma non retribuiti. Interessanti le esperienze, numerosi gli spunti, desolanti la prospettive. Tanto che sembra che i pochi colleghi che ancora vengono pagati per fare questo mestiere se ne vergognino, contrariamente a tutti quelli che vanno decisamente orgogliosi delle loro prestazioni non retribuite.
E si parla di come sfruttare un'idea vincente, dare seguito ad un'intuizione felice, adeguarsi alle richieste dei numerosi e mutevoli fruitori online e godere del successo del momento, nel caso in cui si riesca a dare il servizio giusto, all'utente giusto, al momento giusto. Finchè dura.
Carpe diem.

Eventi del genere mi incuriosiscono. Ma quando sono perplessa il mio entusiasmo scema.
Così non chiedo nulla a nessuno, e aspetto con ansia  il "secondo atto" in cui però, come già scritto nell'ipotesi, viene solo confermata la tesi. Anche nella seconda parte dell'incontro si parla esclusivamente di teatro. Solo di teatro. Mah...
Rileggo con più attenzione il foglio dell'accredito. C'è proprio scritto "Raccontare lo spettacolo dal vivo". Cerco parole come teatro, teatrale, palcoscenico o qualsiasi altro termine che giustifichi il tema unico, ma non trovo niente.
Si approssima la fine dell'evento. Io non ho voglia di fare domande, l'ho già detto, quando sono perplessa e delusa mi mancano le parole. Ma com'è, però, che non viene in mente a nessuno di chiedere perché non si parla di altro? Come si può non parlare di musica? E di televisione? E, perché no, del balletto, del circo, dell'arte di strada...
Invece no. Fino alla fine, la critica teatrale dimostra con liquida sufficienza di bastare a se stessa senza nemmeno porsi il problema dell'esistenza di altro. Senza farsi venire il dubbio che possa esistere una fetta di colleghi che nella vita sono stati critici di altro.

Delusa e poco soddisfatta dopo quattro ore di chiacchere monotematiche, prima di lasciare il teatro vado a cercare la toilette. Cerco la sagoma femminile per individuare la porta giusta e mi metto in fila, anche lì davanti. Ma non posso fare a meno di guardare l'adesivo incollato sotto la silhouette della donnina. Incrocio lo sguardo di una collega: entrambi incredule (sarà uno scherzo?), condividiamo il primo e forse unico sorriso largo della grigia mattinata.

Complimenti alla fantasia del bravo massaggiatore che invita le signore a cogliere al volo le gioie dell'oggi.
Complimenti a chi, in un prestigioso teatro della Capitale, ha pensato fosse sufficiente limitarsi a cancellare i numeri telefonici invece di rimuovere prontamente l'adesivo.
Complimenti a chi ha dato il nome all'evento odierno.
Roma, 29.11.2014 - Teatro Argentina

Manchi

Mi manchi.
Sotto e sulla pelle, in fondo e davanti agli occhi, dentro gli orecchi e nel suono del mondo.
Mi manchi così tanto.
E quello che resta è solo vuoto.

Uno sguardo è per sempre


Ci sono cose che ti segnano tutta la vita.
Nella mia, sono gli sguardi.
 
Quello di Robin Williams, per me, è stato uno di quelli. In una conferenza stampa lontana, dove intratteneva i giornalisti allo stesso modo come avrebbe intrattenuto un pubblico qualunque, durante le firme di autografi richiesti per dovere, il suo sguardo ha incrociato il mio. Due occhi chiari di adulto buono e saggio, in un silenzio muto fatto di miliardi di parole.
L'ho portato a casa quello sguardo in cui, chissà perché, lessi timidezza, solitudine, fame di complicità.

Mi viene in mente poi lo sguardo rassegnato di un mio fratello che, in punto di morte, cercava il mio per la necessità di farsi accompagnare dolcemente in un viaggio che sapeva di dover fare. In quello sguardo c'era il dispiacere di lasciarmi, la gratitudine per i miei sacrifici. Era un gatto, ma solo per gli altri. E io, per lui, non ero solo un essere umano.

Tra i ricordi indelebili c'è anche uno sguardo paterno. Di un uomo che non dimentica di essere padre anche se gli sta crollando il mondo addosso. Che si trattiene dal confessarti il suo terrore perché tu sei comunque la sua bambina, da proteggere, fino alla fine. Il terrore, però, l'ho letto, e ho cercato, con una carezza, di fargli sentire il mio amore, quello di tutta una vita. Chissà se ci sono riuscita.

Ricordo anche sguardi frivoli. Come quello malizioso di Huey Lewis a passeggio a Roma in via Frattina. Sguardo sfoderato con spavalderia dopo aver abbassato i Ray Ban, che partendo dalle mie gambe abbronzate saliva su e poi mi puntava il viso, mentre i suoi gli elargivano cameratesche pacche sulle spalle. Indimenticabile.

E quello indelebile, indescrivibile, di un uomo che non riusciva a dirmi addio.

C'è uno sguardo, però, che non sono mai riuscita a descrivere come avrei voluto. Ricco e pieno di tante di quelle cose che, forse, complice la mia giovane età, non potevo comprendere ma solo intuire.
Occhi di un azzurro intenso che ti mettevano a nudo e, al tempo stesso, ti facevano sentire parte del suo mondo. Occhi che mi hanno abbracciato, e compreso, e amato, e rimproverato, e osservato, sguardi rapidi, essenziali, profondi, fermi, inquietanti e rassicuranti.
Quelli erano gli occhi di Karol Wojtyla. 
Per sempre nei miei, insieme a tanti altri. A riempirmi giorni luminosi e notti buie. 

Huey Lewis and The News - Stuck with you

Nano Nano

Il mondo dello spettacolo è permeato da enormi finzioni. Occasionalmente, però, c'è qualcosa di molto vero. 
Come quello sguardo che ho incrociato e raccolto tanti anni fa, in una conferenza stampa anomala, tra un fuoco di fila di battute, non tutte esilaranti, ma inarrestabili e infinite, a cui non potevi resistere anche se non le capivi fino in fondo. Perchè non petevi resistere a lui.
Quello sguardo silente mi parlava di timidezza, di umiltà, ma soprattutto di fame di complicità.
Strano.
Forse non ne ha trovata a sufficienza nella vita.
Forse voleva solo riposarsi un po'.
Ha dato così tanto.
Peccato perdere quella voglia di dare agli altri. Peccato.

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