Mia figlia deve fare un tema. Si lamenta, non riesce a capire la traccia che dice: L'amicizia. Siamo tutti diversi eppure in fondo siamo tutti uguali. Non trova il nesso tra la parola e la frase.
Ci penso.
Anche a me sembra che non ci sia il nesso, ma non è così. Ho sempre sostenuto la forza e la bellezza della varietà. Il nesso lo trovo, ne parlo con lei. Io non ho nemmeno un amico che somigli ad un altro, e questo mi piace molto. Adoro i loro gusti diversi, le loro manie. Cerco di capire le loro fissazioni e quando non le capisco le accetto e basta. Da ognuno imparo qualcosa di diverso, ognuno mi arricchisce.
"Pensa. Poi scrivi quello che senti...". Aggiungo "Correggi dopo".
Mia figlia sembra aver capito cosa intendo. E si allontana di corsa per mettere nero su bianco l'idea che gli è balenata in testa.
Io accendo il pc e sorrido. E bello scoprire che tra gli amici c'è chi, come te, riesce a fermare un'emozione scrivendo parole. Non per ottenere consensi, non per cercare applausi, solo per il piacere di farlo. Sono felice. Ho passato un bel pomeriggio di sole in compagnia di amici belli. Ascoltando, più che altro, un po' in disparte. Mi piace farlo ogni tanto, perché ascoltare significa conoscere. E imparare.
E penso che in fondo, a chi sta crescendo, si dovrebbe far capire la gioia che si prova a fare qualcosa che ti piace. Poi, può anche succedere che il tuo piacere si trasformi in un mestiere che ti realizzi. Succede molto più spesso di quanto si possa credere.
Penso a Maurizio, ieri, che scende solo in una cantina che sa di muffa, e oggi che sale su un palco di uno stadio insieme a migliaia di persone. Penso a Rocco, ieri, che ti saluta frettolosamente per non perdere la metro delle undici e mezza, e oggi, che si attarda a firmare autografi nei cinema dove vengono proiettati i suoi film. Penso a Luca, ieri, che esce a fatica dalla sua Fiat 126 azzurrina stipata di bagagli, e che stasera entra senza alcuna difficoltà nella parte di Adriano Olivetti.
E sono felice per loro, a cui voglio bene, così come sono felice per tutti quelli che credono in quello che fanno, con gioia. Che siano artisti, operai o impiegati. Che siano padri o madri. Penso anche a me.
Lo stand-by non mi si addice, ma devo riconoscere che ha una sua funzione. Ora è tempo di andare oltre.
Coraggio Caterina, credici ancora. Coraggio Italia, credici sempre.
La forza di un sogno (e della speranza) non ha eguali.
Non sempre si è come si vorrebbe essere. Ma ci si prova... Sempre.
Ai miei amici. Ai miei sogni.
Là, Lucio Dalla
Ai miei amici. Ai miei sogni.
Là, Lucio Dalla
Non ci si conosce mai abbastanza. Ma se si ha l'umiltà di ascoltare le cose che altri dicono su di noi, è più facile capire quello che ci riguarda.
Il mio primo fidanzato, gelosissimo, mi accusava di guardare "un po' troppo" gli altri uomini. Io, in quel periodo, giuro, non avevo occhi che per lui. Il primo amore è così abbagliante, che non esiste niente all'infuori di esso. Eppure. Eppure mi rimproverava continuamente un supposto interesse per questo o per quell'altro, tenendomi il broncio per giorni, scatenando dentro di me spropositati, inguaribili sensi di colpa. Fino al giorno in cui, durante uno spettacolo circense (ebbene sì, mi portò al circo), mi fece una scenata da applausi per un presunto sguardo d'intesa con un giovane e aitante domatore di leoni. Deve ringraziare, forse, la mia giovane età (e pure la presenza di mia madre), se la sfuriata non si trasformò nella scena madre di Dramma della gelosia.
Fin da quel giorno di inizi anni '80, capii che qualcosa non tornava...
Una scena tale aveva fatto nascere il sospetto, dentro di me, che l'uomo che avessi davanti non fosse molto sano di mente. Non trovavo nessuna colpa nelle mie azioni, nè nelle intenzioni. Non c'era. La malafede era sua. E se voleva pensar male, il problema era suo.
Qualche anno dopo però, un fidanzato un po' più grande, con molta pacatezza e molto amore, mi parlò ancora dei miei sguardi. Non ricordo né come né perché nacque tale discorso, ma lui disse qualcosa che mi fece molto effetto circa il mio modo di guardare gli uomini. Non mi accusava di fissarli, no, mi faceva solo notare che i miei occhi si soffermavano un po' troppo in quelli del mio interlocutore, cosa che autorizzava l'altro a pensare che volessi da lui qualcosa di più. Una questione di attimi, diceva lui, qualcuno di troppo.
E' passato tanto tempo da quel giorno, ma ho sempre continuato a pensare a quella teoria, sposandola sempre più, anno dopo anno, e trovandomi sempre e comunque impotente di fronte ad essa.
In realtà non posso modificare il mio modo di guardare, non posso cambiare la mia naturale curiosità per un altro, chiunque esso sia, diverso da me. E ho continuato, quindi, a guardare tutti nello stesso modo, nella consapevolezza assoluta di poter essere male interpretata. Al diavolo quindi i sensi di colpa e al diavolo le idee che qualcun altro poteva farsi, errate, sulle mie intenzioni.
Il mondo mi incuriosisce. L'uomo, in quanto essere diverso da me, ancora di più.
Continuerò, nelle mie conversazioni, a guardarlo come faccio da sempre. Come faccio con animali, oggetti inanimati, luci e panorami. E' il mio modo di conoscere e comprendere.
E non fa male a nessuno.
Il mio primo fidanzato, gelosissimo, mi accusava di guardare "un po' troppo" gli altri uomini. Io, in quel periodo, giuro, non avevo occhi che per lui. Il primo amore è così abbagliante, che non esiste niente all'infuori di esso. Eppure. Eppure mi rimproverava continuamente un supposto interesse per questo o per quell'altro, tenendomi il broncio per giorni, scatenando dentro di me spropositati, inguaribili sensi di colpa. Fino al giorno in cui, durante uno spettacolo circense (ebbene sì, mi portò al circo), mi fece una scenata da applausi per un presunto sguardo d'intesa con un giovane e aitante domatore di leoni. Deve ringraziare, forse, la mia giovane età (e pure la presenza di mia madre), se la sfuriata non si trasformò nella scena madre di Dramma della gelosia.
Fin da quel giorno di inizi anni '80, capii che qualcosa non tornava...
Una scena tale aveva fatto nascere il sospetto, dentro di me, che l'uomo che avessi davanti non fosse molto sano di mente. Non trovavo nessuna colpa nelle mie azioni, nè nelle intenzioni. Non c'era. La malafede era sua. E se voleva pensar male, il problema era suo.
Qualche anno dopo però, un fidanzato un po' più grande, con molta pacatezza e molto amore, mi parlò ancora dei miei sguardi. Non ricordo né come né perché nacque tale discorso, ma lui disse qualcosa che mi fece molto effetto circa il mio modo di guardare gli uomini. Non mi accusava di fissarli, no, mi faceva solo notare che i miei occhi si soffermavano un po' troppo in quelli del mio interlocutore, cosa che autorizzava l'altro a pensare che volessi da lui qualcosa di più. Una questione di attimi, diceva lui, qualcuno di troppo.
E' passato tanto tempo da quel giorno, ma ho sempre continuato a pensare a quella teoria, sposandola sempre più, anno dopo anno, e trovandomi sempre e comunque impotente di fronte ad essa.
In realtà non posso modificare il mio modo di guardare, non posso cambiare la mia naturale curiosità per un altro, chiunque esso sia, diverso da me. E ho continuato, quindi, a guardare tutti nello stesso modo, nella consapevolezza assoluta di poter essere male interpretata. Al diavolo quindi i sensi di colpa e al diavolo le idee che qualcun altro poteva farsi, errate, sulle mie intenzioni.
Il mondo mi incuriosisce. L'uomo, in quanto essere diverso da me, ancora di più.
Continuerò, nelle mie conversazioni, a guardarlo come faccio da sempre. Come faccio con animali, oggetti inanimati, luci e panorami. E' il mio modo di conoscere e comprendere.
E non fa male a nessuno.
Iscriviti a:
Post (Atom)