Augurare rispetto

Se mi piace cucinare lo devo ai miei nonni. Non perché fossero grandi cuochi, ma per il rispetto verso le materie prime e la grande attenzione che mettevano nella preparazione dei piatti. Che secondo me venivano buoni perché si sentivano curati e coccolati. Già, ai cibi non piace essere strapazzati e mischiati alla rinfusa e se li prepari con amore se ne accorgono e si dispongono più volentieri in maniera armoniosa.
Fin da piccola ho imparato la precisione nel dosare gli alimenti con la bilancia a due piatti di legno, marmo e rame con i pesetti di piombo, talmente grande da non entrare in nessuna cucina moderna, e la pazienza necessaria per stendere la pasta su un piano di legno ormai concavo per l'usura nascosto sotto un'alzatina di cucina. Che siccome era pratico ora nessuno più produce. Di nonna conservo due teglie di alluminio formato famiglia (allargatissima) che mi sono portata a casa e che mai userò. Di nonno invece custodisco i gesti regolari delle mani che sciacquano il baccalà sotto l'acqua corrente ogni mezz'ora, per tutta la giornata, e gli odori delle spezie utilizzate per frollare la cacciagione, che mai più mangerò.
La conoscenza e la coscienza di oggi mi impediscono di mangiare uccelli, interiora e cuccioli di animali, di cui un tempo si faceva largo consumo. Ma questa è un'altra storia... Oggi voglio parlare di cosa significava vedere i miei nonni al lavoro. Era come andare a scuola a leggere un libro di cui sapevi che prima o poi avresti dimenticato tutto. Perché quello che c'era scritto in fondo non importava più di tanto. I miei nonni non mi hanno lasciato libretti di istruzioni ma modi di approcciare le cose, di manovrare la materia. Modi misurati e sapienti, a volte sbavati dall'improvvisazione ma mai sbagliati. Mia nonna bruciacchiava regolarmente tutto quello che cucinava. Ma quando ci sedevamo a tavola eravamo tutt'altro che tristi. Mangiavano nel tempo necessario, parlavamo, ridevamo. Due volte al giorno. Tutti i giorni.
Ci vuole rispetto per quello che c'è in tavola. Rispetto per chi lo prepara. Rispetto per chi mangia a fianco a te. Rispetto, per quello che stai facendo mentre lo stai facendo. Rispetto per il tempo e lo spazio.
Il mio augurio e la mia speranza, in questa Pasqua, è di avere sempre il giusto riguardo per le cose e per tutti gli esseri viventi. Il guadagno è di tutti. 





Cantanti

Cantano. Così dicono. Che cantano. Ma cantare è una cosa precisa. Che non serve saper fare per guadagnare visualizzazioni. Quindi io non capisco la necessità di chiamarli cantanti.
Artisti. Così si definiscono quando non reggono la definizione precedente. Ok. Ma l'arte ha una proprietà ben precisa: la durevolezza. L'eternità, l'indistruttibilità, la perennità.
Quindi io aspetto.

Metamorfosi

Metti che hai sette, otto anni.
Metti che sei una bambina felice, con una mamma e un papà, tanti amici e un cane. Metti che un giorno ti svegli e il tuo cane non c'e più. E non c'è più nemmeno quella bambina felice del giorno prima. Lo hai visto disteso ai margini di un marciapiede, immobile, con gli occhi sbarrati e il sangue vivo che dalla testa cola lentamente in un tombino.
La morte ti cambia. Quella di ogni essere che ami fino al momento prima di non essere più. E ad ogni morte tu sei una cosa diversa. Ma cosa diventi dopo dieci, venti, cento, mille morti dopo? Bocca serrata e cuore d'acciaio fingi di essere la stessa di sempre. Ma la stessa è assieme ai cadaveri che hai sepolto.
Tu sei altro. Inevitabilmente.

 

Sorrisi impress ionanti

Dopo essere stata tempestata di telefonate e messaggi per ricordarmi l'appuntamento, precisare l'indirizzo, preoccuparsi della mia puntualità e del fatto che avessi o meno trovato facilmente parcheggio, eccetera eccetera, arrivo alla visita. Puntuale.
Ho preso appuntamento presso uno studio dentistico, che in realtà di medico ha molto poco. In un turbinio di luci, colori e paillettes, mi sembra di essere entrata in una casa di tolleranza. Segretaria pin-up con trucco da show girl, sandali gioiello tacco 12 (è dicembre), merce abbondante (gradevole per carità) in bella mostra, che mi accoglie senza sorriso. Forse il trattamento che mi riserva è dovuto al fatto che sono vestita a caso, diciamo casual va', e strido con la fauna lì presente, tirata a lucido. Mi fa accomodare in un ingresso-sala d'attesa piena di Babbi Natale appesi ovunque, tra diffusori di essenze che emanano nuvole di vapore e musica natalizia diffusa mono che si ripete in continuazione.
"Accomodare" si fa per dire, perché il divano è occupato da tre/quattro fanciulle fatte più o meno con lo stesso stampino della segretaria che masticano rumorosamente gomma americana mentre sguardo fisso ai cellulari ignorano il fatto che stanno occupando tutte le sedute disponibili con cappotti, borse, shopper e oggetti vari, come se il divano fosse solo loro.
Nel corridoio che ho davanti c'è un bel via vai tra porte che si aprono e si chiudono, gente che ride in maniera vistosa e pazienti che escono dalle porte chiuse con buste di ghiaccio sintetico sulle guance e uno via l'altro si infilano nel bagno alla mia destra. Suppongo per smadonnare senza essere visti.
Dopo 20 minuti di attesa in piedi, mentre la pin-up va su e giù per le stanze sculettando a profusione, da una porta esce una dottoressa che chiama il mio nome. Occhio, il nome ho detto, non il cognome. Ma chi ti conosce. La dottoressa, presumo, scusandosi dell'attesa mi dice che porta un po' di ritardo. Le chiedo "Scusi, quanto?", mi risponde "C'è da aspettare almeno un'oretta, mi spiace... non prendo io gli appuntamenti". Penso che magari lesinando chiacchierate e risatine avrebbe potuto dispiacersi meno ed essere più puntuale. Ma a quel punto, sollevata per avere un valido motivo per darmela a gambe, ringrazio, saluto e finalmente imbocco la porta d'ingresso e scappo via, felice di essere finalmente uscita da quella suburra da incubo. Per mezz'ora ho creduto di essere in un film su una realtà distopica, anzi no, sembra Pleasantville. Confesso di essermi perfino guardata in giro per capire se ci fossero videocamere per girare una candid.
Ma quando penso di essere finalmente salva squilla il cellulare: un incaricato del Centro vuole sapere se ho trovato lo studio. Mi assale il dubbio, anzi la quasi certezza, che detta organizzazione abbia a che fare solo con persone deficienti, e se così non fosse non capisco perché trattino i clienti come tali.
Rispondo: "Sì l'ho trovato, grazie, ma la dottoressa portava un'ora di ritardo e sono dovuta andare via". E ometto il fatto di essermi pure traversata tutta Roma per un preventivo mai fatto.
Pessima mossa gente. Pessima pubblicità, quella che volentieri farò.
Tanto gli dovevo. E Buon Natale.




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