In quest'estate che non finisce mai, benedicendo il condizionatore e pregando che non si verifichi mai più il blackout del secolo, sdraiata sul letto in penombra chiudo gli occhi, e torno all'estate del 1982.
Sono le cinque del pomeriggio, ho appena aperto le persiane di camera mia dopo aver fatto finta di riposare per far contento mio padre. Il sole splende, scalda il vetro della finestra, ma io devo preparami per uscire. Indosso una maglietta, poi un vestitino leggero, poggio sulle spalle un maglioncino di cotone bianco. Resto un momento a pensare se indossare o meno i calzini prima di infilare le ballerine. Rinuncio, anche se so che fra un paio d'ore me ne pentirò. Scendo le scale di corsa, esco velocemente di casa. Il vento è fresco, alzo il viso verso il sole per catturarne il tepore. Gli occhiali da sole non li ho e non mi servono. Accelero il passo. Mi affretto per raggiungere al più presto i miei amici, tanto non corro il rischio di sudare. Arrivo a destinazione. E dopo cinque minuti rimpiango quei calzini...
Le persiane sono chiuse. E chi le apre mai. Alle sei del pomeriggio il termometro segna 33 gradi, ma la stazione meteo dice che la temperatura percepita si aggira sui 37. La maglietta serve ad evitare che il condizionatore mi ghiacci il sudore sulla pancia. Se solo servisse a diminuire l'effetto serra e riportare il clima alla sua normalità, ci rinuncerei volentieri, come rinuncerei all'auto e a tutte quelle diavolerie elettroniche che consumano energia, computer compreso.
L'aria fuori però è irrespirabile. Così resto tappata in casa, e il mare lo vedo dalla webcam.
Ma il suo odore non mi arriva.
L'aria fuori però è irrespirabile. Così resto tappata in casa, e il mare lo vedo dalla webcam.
Ma il suo odore non mi arriva.
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