Cantano. Così dicono. Che cantano. Ma cantare è una cosa precisa. Che non serve saper fare per guadagnare visualizzazioni. Quindi io non capisco la necessità di chiamarli cantanti.
Artisti. Così si definiscono quando non reggono la definizione precedente. Ok. Ma l'arte ha una proprietà ben precisa: la durevolezza. L'eternità, l'indistruttibilità, la perennità.
Quindi io aspetto.
Metti che hai sette, otto anni.
Metti che sei una bambina felice, con una mamma e un papà, tanti amici e un cane. Metti che un giorno ti svegli e il tuo cane non c'e più. E non c'è più nemmeno quella bambina felice del giorno prima. Lo hai visto disteso ai margini di un marciapiede, immobile, con gli occhi sbarrati e il sangue vivo che dalla testa cola lentamente in un tombino.
La morte ti cambia. Quella di ogni essere che ami fino al momento prima di non essere più. E ad ogni morte tu sei una cosa diversa. Ma cosa diventi dopo dieci, venti, cento, mille morti dopo? Bocca serrata e cuore d'acciaio fingi di essere la stessa di sempre. Ma la stessa è assieme ai cadaveri che hai sepolto.
Tu sei altro. Inevitabilmente.
Dopo essere stata tempestata di telefonate e messaggi per
ricordarmi l'appuntamento, precisare l'indirizzo, preoccuparsi della mia puntualità e del fatto che avessi o meno trovato facilmente parcheggio, eccetera eccetera, arrivo alla visita. Puntuale.
Ho preso appuntamento presso uno studio dentistico, che in realtà di
medico ha molto poco. In un turbinio di luci, colori e paillettes, mi sembra di essere entrata in una casa di tolleranza. Segretaria
pin-up con trucco da show girl, sandali gioiello tacco 12 (è dicembre), merce
abbondante (gradevole per carità) in bella mostra, che mi accoglie senza sorriso. Forse il trattamento che mi riserva è dovuto al fatto che sono vestita a caso, diciamo casual va', e strido con la fauna lì presente, tirata a lucido. Mi fa accomodare in
un ingresso-sala d'attesa piena di Babbi Natale appesi ovunque, tra diffusori
di essenze che emanano nuvole di vapore e musica natalizia diffusa mono che si
ripete in continuazione.
"Accomodare" si fa per dire, perché il divano è
occupato da tre/quattro fanciulle fatte più o meno con lo stesso stampino della
segretaria che masticano rumorosamente gomma americana mentre sguardo fisso ai
cellulari ignorano il fatto che stanno occupando tutte le sedute disponibili
con cappotti, borse, shopper e oggetti vari, come se il divano fosse solo loro.
Nel corridoio che ho davanti c'è un bel via vai tra porte
che si aprono e si chiudono, gente che ride in maniera vistosa e pazienti che
escono dalle porte chiuse con buste di ghiaccio sintetico sulle guance e uno
via l'altro si infilano nel bagno alla mia destra. Suppongo per smadonnare
senza essere visti.
Dopo 20 minuti di attesa in piedi, mentre la pin-up va su e
giù per le stanze sculettando a profusione, da una porta esce una dottoressa
che chiama il mio nome. Occhio, il nome ho detto, non il cognome. Ma chi ti
conosce. La dottoressa, presumo, scusandosi dell'attesa mi dice che porta un
po' di ritardo. Le chiedo "Scusi, quanto?", mi risponde "C'è da
aspettare almeno un'oretta, mi spiace... non prendo io gli appuntamenti".
Penso che magari lesinando chiacchierate e risatine avrebbe potuto dispiacersi
meno ed essere più puntuale. Ma a quel punto, sollevata per avere un valido
motivo per darmela a gambe, ringrazio, saluto e finalmente imbocco la porta
d'ingresso e scappo via, felice di essere finalmente uscita da quella suburra
da incubo. Per mezz'ora ho creduto di essere in un film su una realtà
distopica, anzi no, sembra Pleasantville. Confesso di essermi perfino guardata
in giro per capire se ci fossero videocamere per girare una candid.
Ma quando penso di essere finalmente salva squilla il
cellulare: un incaricato del Centro vuole sapere se ho trovato lo studio. Mi
assale il dubbio, anzi la quasi certezza, che detta organizzazione abbia a che
fare solo con persone deficienti, e se così non fosse non capisco perché
trattino i clienti come tali.
Rispondo: "Sì l'ho trovato, grazie, ma la dottoressa
portava un'ora di ritardo e sono dovuta andare via". E ometto il fatto di
essermi pure traversata tutta Roma per un preventivo mai fatto.
Pessima mossa gente. Pessima pubblicità, quella che volentieri farò.
Tanto gli dovevo. E Buon Natale.
Vorrei che il drago mangiasse la strega
e che la fiaba finisse in tragedia
mentre la guerra divampa nel regno
e rade al suolo ogni lieto disegno
e tutti i vecchi dentro la cacca
dentro una bolgia totale infinita
apocalisse di fine partita.
Ma il tempo passa e mi rende di burro
e mi dà sete solo d'azzurro,
quindi riprendo a trovare le rime
lasciando a parte ciò che mi opprime.
Vorrei che il mago mangiasse la strega
e che non fosse mai una sorpresa
quando le cose vanno diritte
e non si contano le sconfitte
Vorrei la luna nel cielo a ogni ora
e stelle cadenti per ogni signora
portare il dolore giù dalle soffitte
per dare soltanto benzina alle slitte
Vorrei che sul ghiaccio non si scivolasse
Tornare alla scuola come capoclasse
Mangiare spaghetti per non ingrassare
Bagnarmi le scarpe per un temporale
Viaggiare per sempre senza denaro
Volare nel cielo senza aeroplano
Nuotare di notte ignorando lo scuro
Amare quell'uomo che mi ama sicuro
Scrivere sempre, e senza le penne
Guidare a manetta restando indenne
Cantare forte a squarciagola
Trovare un milione dentro un'aiuola.
Ma a tutto questo saprei rinunciare
se ti potessi di nuovo abbracciare
Stretta per sempre in quel nostro tempo
che ignora il freddo, la fame e il vento.
© Caterina Somma
Iscriviti a:
Post (Atom)