Diffida di chi ha voglia di innamorarsi. Cioè, diffida da chi ti dice di avere voglia di innamorarsi.
Se te lo dice, è perché proprio non riesce a contenerla questa voglia di "amore", come lo chiama lui, come se il bisogno venisse prima e sopra qualsiasi altra cosa, cioè, persona. Il che è proprio così.
Ne consegue che la persona oggetto d'amore non venga scelta per la sua unicità o particolare corrispondenza, ma perché è quella che è arrivata nel posto giusto al momento giusto, a colmare la posizione vacante dell'amante. Participio presente. Insomma, ora ci sei tu, quindi andrà bene. Ma sarebbe andata pure se ci fosse stata un'altra. Tanto non ci vuole molto a scaricarti non appena si accorge che tu non sei affatto quello che vuole. L'uomo che ha voglia di innamorarsi cerca un oggetto, una sagoma di carne e aria fritta che corrisponde all'ideale sessista di donna tutta cuoricini e attenzioni per il suo amato, quella che incarna il ruolo di moglie, madre, amante e amica, madre e sorella, quella che insomma non esiste, se non nella testa dell'uomo che ha voglia di innamorarsi.
L'amore vero arriva, non si cerca. Capita, non si programma. Accade, soprende. Non si trova quando ci si sente soli, ci si inciampa, per lo più quando meno te lo aspetti. Ed è quasi sempre mascherato e si nasconde finché, finalmente, non lo riconosci. Perché ti appartiene da sempre.
Strano Natale, strano Capodanno. Stanno tutti male, influenza o Covid poco cambia, il male del mondo è ovunque, la guerra è lontana solo per chi non vuole vedere.
Mi sforzo di fare festa, cucinare, apparecchiare, servire, condividere. Mi sforzo di fare auguri per una vita serena, per un mondo migliore, per gestire rabbia e dolore che sono solo lo specchio dell'impotenza, la nostra mostruosa spina nel fianco. Tutti o quasi tutti combattono con questa bastarda, quella che fa sentire inutile ogni tuo piccolo sforzo, vano quel piccolo gesto che credevi, nell'atto di compierlo, il mattoncino buono per tirare su la grande casa. Quella maledetta impotenza che fa sembrare il bianco un po' più opaco e il nero mestamente slavato, quella che non ti fa vedere il contrasto e le differenze, quelle che devono esserci e di cui andare fieri, quelle che servono per far funzionare una società. L'eterogenicità che non divide, anzi, è la pietra miliare che rifugge l'omologazione e l'appiattimento.
Finchè... In questo mare di grigio dove sai di essere diverso dai morti solo perché il tuo respiro ancora appanna i vetri, accade qualcosa. A me, quasi sempre, accade una cosa precisa. Arrivano due note nuove, che abbracciano il mood di queste mie giornate, e sento di nuovo quella spinta diversa, che parte dal cuore e che accende il motore. Sento che c'è ancora da fare, possibilità diverse di essere, perché c'è ancora un'emozione da provare. E sono sempre e di nuovo qui a dire grazie ad una melodia, che riesce inaspettatamente a rimettere insieme i cocci, riporta i frammenti negli insiemi giusti, cerchi che si toccano, si scontrano, si fondono, si intersecano, pezzi che da soli non troverebbero un modo per far funzionare gli ingranaggi. Nessuna dose, nemmeno la più massiccia, dei prodotti di merda che ci propinano riuscirà mai a vincere contro quello che, seppur faticosamente, ogni tanto viene fuori dal cilindro magico, sbucando dal nulla, da quel tappeto di niente in cui vorrebbero farci vegetare. Il coniglio è sempre dietro l'angolo, ed è bianco candido, imprevedibile, divertente. Basta solo lasciare aperti i sensi, anche durante il letargo.
A chi devo fare gli auguri di Natale?
È una domanda che continuo a farmi, nonostante sia sempre più difficile darmi una risposta. Non riesco più tanto a tener conto della situazione fra parenti e amici cattolici, atei, razionalisti, buddisti, musulmani, ebrei, anticlericali... e mica devo continuare, avete capito. Col passare degli anni la gente diventa sempre più ex di qualcosa e di qualcuno, e non so se questo accade perché ci sia più conoscenza e libertà, o perché si è alla continua ricerca di ciò che in realtà non si potrà mai trovare cercando nel posto sbagliato, ossia fuori da se stesso.
Al di là di questo, non è che io abbia l'interesse né l'esigenza di tener conto dei cambiamenti altrui, il mio affetto resta immutato. Io a Natale gli auguri li faccio a tutti, amici e nemici, e pure a quelli che non conosco affatto. Perché per me il Natale è un'occasione. Che in quanto tale non andrebbe mai sprecata.
Allora mi disconnetto dall'amore e dall'odio e volo medio, tra i sensi della gente e i diritti di ogni creatura vivente, e prego che nessun essere umano dimentichi i doveri che la vita stessa impone, con maggior forza ai pensanti.
Quindi,
sia che stiate per trascorrere il Natale ad una festa in compagnia tra luminarie
scintillanti, oppure in famiglia con i bambini che sono la luce del
mondo, che siate da soli in un letto d'ospedale al buio già dalle otto
di sera o in penombra, nella stanza dei bottoni, indecisi su quale
pigiare, oppure che stiate imbracciando un fucile nella notte nera che più nera non c'è, io vi prego: pensate che il Natale è un biglietto vincente della Lotteria già in vostro possesso, unico e prezioso.
Non lo sprecate. Cambia la vita.
Il mestiere del genitore è un
lavoro a tempo indeterminato. Che ha inizio e mai fine, nemmeno quando pensi
che l'unica soluzione sarebbe dare le dimissioni. È un mestiere per cui nessuno
ti ha mai formato e quello che hai potuto imparare dagli esempi altrui ti serve
a poco e niente.
Ogni genitore parla un linguaggio
a sé, con grammatica, logica e fonemi diversi, che variano anche da figlio a
figlio. Pressoché inutile il confronto con altri genitori. Le lingue sono
infinite, tutte ostiche ed enigmatiche, che non appena pensi di aver imparato a
livello base ti cambiano sotto gli occhi, mettendo in crisi la tua adultità. Che ha la caratteristica di perdere via via l'elasticità necessaria a cambiare
marcia. Che comunque cambi.
Il linguaggio del genitore deve
necessariamente comporsi di elementi diversi. Le parole sono la facciata del
palazzo. Che può essere splendida in un edificio che nasconde irreparabili
difetti di costruzione oppure anonima, di un palazzo solido e durevole.
Facciata la cui interezza dipende pure da quali e quante intemperie è esposta nel corso del
tempo, molte delle quali sono i figli stessi a produrre. Sarebbe bello se i pargoli lo capissero che le loro saette sono in grado di radere al suolo un
grattacielo di 100 piani. Forse conserverebbero i dardi nella faretra in attesa di un
bersaglio quanto meno più meritevole di esserlo. Ma questo non accade quasi mai.
Il genitore nasce analfabeta, al
limite balbuziente, e il suo linguaggio cresce al crescere del prodotto
generato. E anche se col trascorrere del tempo impara sempre nuove parole resta
infantilmente affezionato a quei termini che gli sembra funzionino meglio. Quelli
che magari saranno la causa del denaro che spenderà più avanti per la
psicoterapia dei figli. Ma vallo a sapere prima.
Man mano che i ragazzini
crescono gli adulti cambiano pelle, alternando la comunicazione autorevole a
quella fraterna a quella amicale. E la maggior parte delle volte che aprono
bocca subito dopo vorrebbero essersela mozzicata quella lingua impaziente e inopportuna. Ma
se ne accorgono sempre un po' troppo tardi.
È da un po' che non faccio altro che suggerire ad una figlia di andarci piano. Che equivale a pensare di riuscire a fare sorvolare continenti ad un aereo solo soffiandoci sopra. Ma io lo so cosa voglio dire.
Vorrei far capire ad un essere
che mi somiglia, e che si fa tanto male ogni volta che sbatte la testa, cosa
scongiurerebbe se solo praticasse un po' di pazienza e imparasse a godere
dell'attesa.
Io dico "Rallenta" e
lei senza parlare mi risponde, con sguardo implorante, che proprio
non si può a vent'anni andarci coi piedi di piombo. E io questo lo so, perché sono
andata molto più veloce di lei, molto prima di lei. Ma, contrariamente a lei, io avrei tanto voluto che
qualcuno mi fermasse, perciò insisto. Dalla gola e attraverso gli occhi cerco di trasferirle il mio concetto di andare piano. Mi sforzo, ma
non riesco. E solo quando lei si allontana sento il monologo che avrei voluto fare. "Non sai cosa vuol dire??? Ma
sì che lo sai! Hai la patente, no? Guidi da anni ormai. Dimmi una serie di cose che puoi fare guidando piano. Non lo sai? Te lo dico io. Puoi essere più attenta a quello che ti accade intorno, puoi concederti un sguardo al panorama o una fermata per sgranchirti le gambe oppure, che so, puoi cantare mentre guidi. Di certo puoi
goderti di più il viaggio. E se sei partita per tempo puoi anche evitare le ansie
dei ritardi e non lasciare che qualcuno rimanga per strada ad aspettarti".
Il monologo è bello. Ma tu
sei e resti sempre e comunque un noioso genitore. Che solo per questioni anagrafiche ne ha viste tante, ne ha
passate tante. Come quando, essendo fortemente in ritardo
sull'orario di partenza, la mattina del 2 agosto 1980 decidi di prendere l'automobile anziché il treno
diretto per la stazione di Bologna Centrale. E solo per quella fretta di arrivare di ieri oggi sei qua a raccontarlo. E' solo per quella fretta se sei diventato un noioso genitore.
Con un idioma quasi incomprensibile per i tuoi figli? Forse, meglio così.
