Oggi ho ripreso contatto con il mondo.
Un'ora davanti al mare, un cielo terso e un'acqua limpida da far commuovere.
Solo una camicia addosso e il sole sulla pelle, negli occhi gente serena, bambini, cani che si muovono senza fretta.
Tepore, suoni lievi, tanta luce e aria piena di aria.
Un tocco leggero al marmo e alla pietra che mi separano da quel che resta di mio padre e di un giovane amico che non abbraccio più da più di vent'anni e via, verso una distesa di blu che mi riconcilia con la vita. E poi si torna a casa.
Con la voglia di uscirne e venire da te, oppure andare altrove, ma vivere. Solo questo.
Vivere.
A dire il vero, per salvarsi dall'estromissione sono sufficienti quindici crediti l'anno, per tre consecutivi, che vengono facilmente attibuiti dopo solo poche ore di corsi, seminari, workshop gratuiti che l'Ordine organizza in tutta Italia.
Partecipo con curiosità agli eventi, senza rientrare nella categoria dei colleghi che si siede all'ultima fila e passa quattro ore consecutive a chattare su Facebook in attesa che suoni la campanella e si possa finalmente mettere la firma per ottenere i sudatissimi crediti. Sono lì, tanto vale che ascolti.
Ne ho già seguiti alcuni di questi eventi. Se non da un punto di vista formativo, valgono almeno come spunto per farti venire dei dubbi. I dubbi sono sempre bene accetti. Non che io non abbia bisogno di "formazione", per carità, è solo che i famigerati "corsi" sono talmente brevi, rapidi e concisi che non possono non essere superficiali. E la superficialità, a me, indigna. Anche se è gratis.
Roma, sabato mattina, Teatro Argentina.
Mi sono iscritta ad un evento dal titolo "Raccontare lo spettacolo dal vivo. Linee guida per una deontologia nella critica di oggi". Finalmente un argomento che mi interessa. Dopo 20 minuti di fila per l'accredito assisto ad una prima parte - quella prima della sacrosanta, intoccabile "pausa caffè" - dove si parla di critica teatrale, tra colleghi che si occupano da sempre di teatro sulla carta stampata, sul web, sulle reti Rai, radio e televisive. Teatro, teatro, teatro. Testate di critica teatrale on-line, giovani imprenditori che scrivono per amore verso il teatro, giornalisti della rete che formano altri giornalisti a diventare professionalmente disoccupati, come loro. Anzi, mi correggo, occupati, ma non retribuiti. Interessanti le esperienze, numerosi gli spunti, desolanti la prospettive. Tanto che sembra che i pochi colleghi che ancora vengono pagati per fare questo mestiere se ne vergognino, contrariamente a tutti quelli che vanno decisamente orgogliosi delle loro prestazioni non retribuite.
E si parla di come sfruttare un'idea vincente, dare seguito ad un'intuizione felice, adeguarsi alle richieste dei numerosi e mutevoli fruitori online e godere del successo del momento, nel caso in cui si riesca a dare il servizio giusto, all'utente giusto, al momento giusto. Finchè dura.
Carpe diem.
Eventi del genere mi incuriosiscono. Ma quando sono perplessa il mio entusiasmo scema.
Così non chiedo nulla a nessuno, e aspetto con ansia il "secondo atto" in cui però, come già scritto nell'ipotesi, viene solo confermata la tesi. Anche nella seconda parte dell'incontro si parla esclusivamente di teatro. Solo di teatro. Mah...
Rileggo con più attenzione il foglio dell'accredito. C'è proprio scritto "Raccontare lo spettacolo dal vivo". Cerco parole come teatro, teatrale, palcoscenico o qualsiasi altro termine che giustifichi il tema unico, ma non trovo niente.
Si approssima la fine dell'evento. Io non ho voglia di fare domande, l'ho già detto, quando sono perplessa e delusa mi mancano le parole. Ma com'è, però, che non viene in mente a nessuno di chiedere perché non si parla di altro? Come si può non parlare di musica? E di televisione? E, perché no, del balletto, del circo, dell'arte di strada...
Invece no. Fino alla fine, la critica teatrale dimostra con liquida sufficienza di bastare a se stessa senza nemmeno porsi il problema dell'esistenza di altro. Senza farsi venire il dubbio che possa esistere una fetta di colleghi che nella vita sono stati critici di altro.
Delusa e poco soddisfatta dopo quattro ore di chiacchere monotematiche, prima di lasciare il teatro vado a cercare la toilette. Cerco la sagoma femminile per individuare la porta giusta e mi metto in fila, anche lì davanti. Ma non posso fare a meno di guardare l'adesivo incollato sotto la silhouette della donnina. Incrocio lo sguardo di una collega: entrambi incredule (sarà uno scherzo?), condividiamo il primo e forse unico sorriso largo della grigia mattinata.
Complimenti alla fantasia del bravo massaggiatore che invita le signore a cogliere al volo le gioie dell'oggi.
Complimenti a chi, in un prestigioso teatro della Capitale, ha pensato fosse sufficiente limitarsi a cancellare i numeri telefonici invece di rimuovere prontamente l'adesivo.
Complimenti a chi ha dato il nome all'evento odierno.
Roma, 29.11.2014 - Teatro Argentina |
Mi manchi.
Sotto e sulla pelle, in fondo e davanti agli occhi, dentro gli orecchi e nel suono del mondo.
Mi manchi così tanto.
E quello che resta è solo vuoto.
Ci sono cose che ti segnano tutta la vita.
Nella mia, sono gli sguardi.
Quello di Robin Williams, per me, è stato uno di quelli. In una conferenza stampa lontana, dove intratteneva i giornalisti allo stesso modo come avrebbe intrattenuto un pubblico qualunque, durante le firme di autografi richiesti per dovere, il suo sguardo ha incrociato il mio. Due occhi chiari di adulto buono e saggio, in un silenzio muto fatto di miliardi di parole.
L'ho portato a casa quello sguardo in cui, chissà perché, lessi timidezza, solitudine, fame di complicità.
Mi viene in mente poi lo sguardo rassegnato di un mio fratello che, in punto di morte, cercava il mio per la necessità di farsi accompagnare dolcemente in un viaggio che sapeva di dover fare. In quello sguardo c'era il dispiacere di lasciarmi, la gratitudine per i miei sacrifici. Era un gatto, ma solo per gli altri. E io, per lui, non ero solo un essere umano.
Tra i ricordi indelebili c'è anche uno sguardo paterno. Di un uomo che non dimentica di essere padre anche se gli sta crollando il mondo addosso. Che si trattiene dal confessarti il suo terrore perché tu sei comunque la sua bambina, da proteggere, fino alla fine. Il terrore, però, l'ho letto, e ho cercato, con una carezza, di fargli sentire il mio amore, quello di tutta una vita. Chissà se ci sono riuscita.
Ricordo anche sguardi frivoli. Come quello malizioso di Huey Lewis a passeggio a Roma in via Frattina. Sguardo sfoderato con spavalderia dopo aver abbassato i Ray Ban, che partendo dalle mie gambe abbronzate saliva su e poi mi puntava il viso, mentre i suoi gli elargivano cameratesche pacche sulle spalle. Indimenticabile.
E quello indelebile, indescrivibile, di un uomo che non riusciva a dirmi addio.
C'è uno sguardo, però, che non sono mai riuscita a descrivere come avrei voluto. Ricco e pieno di tante di quelle cose che, forse, complice la mia giovane età, non potevo comprendere ma solo intuire.
Occhi di un azzurro intenso che ti mettevano a nudo e, al tempo stesso, ti facevano sentire parte del suo mondo. Occhi che mi hanno abbracciato, e compreso, e amato, e rimproverato, e osservato, sguardi rapidi, essenziali, profondi, fermi, inquietanti e rassicuranti.
Quelli erano gli occhi di Karol Wojtyla.
Per sempre nei miei, insieme a tanti altri. A riempirmi giorni luminosi e notti buie.
Huey Lewis and The News - Stuck with you
Il mondo dello spettacolo è permeato da enormi finzioni. Occasionalmente, però, c'è qualcosa di molto vero.
Come quello sguardo che ho incrociato e raccolto tanti anni fa, in una conferenza stampa anomala, tra un fuoco di fila di battute, non tutte esilaranti, ma inarrestabili e infinite, a cui non potevi resistere anche se non le capivi fino in fondo. Perchè non petevi resistere a lui.
Quello sguardo silente mi parlava di timidezza, di umiltà, ma soprattutto di fame di complicità.
Strano.
Strano.
Forse non ne ha trovata a sufficienza nella vita.
Forse voleva solo riposarsi un po'.
Ha dato così tanto.
Forse voleva solo riposarsi un po'.
Ha dato così tanto.
Peccato perdere quella voglia di dare agli altri. Peccato.
Nella vita ho sempre seguito il cuore. Non che la testa non funzionasse, ma ascoltavo sempre lui per primo.
Tutto sommato, m'ha sempre detto bene.
Fino ad un certo punto, in cui ho cominciato a comportarmi da adulta.
Forse lo sono diventata, ma non so se m'è convenuto granché.
A questo punto ho due possibilità: fare marcia indietro e tornare a fare apparenti scemenze, accettando ancora di prendere in faccia quello che porta il vento, oppure continuare sulla strada della razionalità.
Sceglierei la seconda, se non fossi così triste nel farlo.
Potrei vivere a metà strada, ma non mi viene.
Potrei tentare di stare in bilico, come fanno gli equilibristi di mezzo mondo.
Chi l'ha detto che crescendo s'impara?
Adesso basta sangue...
Ve lo dico: sono di parte.
Dalla parte dei Beatles, da quella degli Yankees e quella degli Spandau Ballet.
Ecco perchè ieri sera, sentendo Tony Hadley intonare un pezzo dei Duran Duran, ho sorriso. E poi riso, forte.
Ma questa è una delle magie che compie il tempo quando passa, specie se ne passa tanto.
Succede che Tony è un altro, ma chissenefrega delle guance rosse per l'alcool se canta ancora così a cinquantaquattro anni. Succede che nessuno gli lancia più reggiseni sul palco ma qualche orsacchiotto gli arriva ancora, lui lo raccoglie, lo regala ad un bambino in braccio al padre in prima fila, e la signora accanto gli urla in romanesco: "A' bello ciacioneee!". Succede che canti a squarciagola con i piedi che ti fanno male, a due metri da lui, ma vicino a te non c'è la tua compagna di banco a tenerti la mano sudata dall'emozione, ma tua figlia adolescente che non capisce il tuo entusiasmo ma è lì perché ti vuole bene. Succede che godi, esattamente come allora, ma invece di strapparti i capelli ti stampi sul viso il tuo più bel sorriso, perenne, di gioia e gratitudine.
Per averle vissute certe gioie. Per viverle ancora certe gioie.
Per un concerto ineccepibile, per una voce ancora superba, per un gruppo coi fiocchi.
Bello. Bello. Ancora!
Dalla parte dei Beatles, da quella degli Yankees e quella degli Spandau Ballet.
Ecco perchè ieri sera, sentendo Tony Hadley intonare un pezzo dei Duran Duran, ho sorriso. E poi riso, forte.
Ma questa è una delle magie che compie il tempo quando passa, specie se ne passa tanto.
Succede che Tony è un altro, ma chissenefrega delle guance rosse per l'alcool se canta ancora così a cinquantaquattro anni. Succede che nessuno gli lancia più reggiseni sul palco ma qualche orsacchiotto gli arriva ancora, lui lo raccoglie, lo regala ad un bambino in braccio al padre in prima fila, e la signora accanto gli urla in romanesco: "A' bello ciacioneee!". Succede che canti a squarciagola con i piedi che ti fanno male, a due metri da lui, ma vicino a te non c'è la tua compagna di banco a tenerti la mano sudata dall'emozione, ma tua figlia adolescente che non capisce il tuo entusiasmo ma è lì perché ti vuole bene. Succede che godi, esattamente come allora, ma invece di strapparti i capelli ti stampi sul viso il tuo più bel sorriso, perenne, di gioia e gratitudine.
Per averle vissute certe gioie. Per viverle ancora certe gioie.
Per un concerto ineccepibile, per una voce ancora superba, per un gruppo coi fiocchi.
Bello. Bello. Ancora!
M. si gira, sorride, e mi mette delicatamente la cuffia in testa mentre mi dice "voglio farti sentire una cosa". Come ha fatto altre mille volte, in mille anni.
Ma stavolta mi passa l'i-phone con un'espressione che significa "ti stupirai" e si allontana...
Non mi aspetto nulla, ma apro le orecchie e chiudo gli occhi.
Poi sento la tua voce, ed già è un sollievo, e comincio ad ascoltare. E man mano che le note si susseguono la tua voce vola col vento, il cuore si riempie di cose mancanti e le lacrime cominciano a bagnarmi le guance.
S. mi vede, mi dà un bacio, ed io continuo a volare con i miei pensieri, le tue immagini, i miei dolori.
La canzone finisce presto. Tampono le lacrime, la riascolto. Poi M. si riaffaccia sulla terrazza, si inginocchia davanti a me con lo stesso sorriso, mi guarda fisso.
Io gli dico "E' bellissima". Lui mi prende il viso tra le mani, mi dice: "Lo vedi che sei ancora viva".
Lo so. Lo sono sempre, pure troppo.
Ci sono concerti che senti con le orecchie. Poi ci sono quelli che senti col cuore.
A vedere Vasco Rossi ieri sera ci sono andata per curiosità ma anche per piacere, convinta, nel profondo, di dovergli comunque qualcosa. E lontana anni luce dagli accrediti - stampa e non - ho comprato il biglietto.
Non sono, per natura, né seguace né fan di nessuno, ma la musica buona e fatta bene mi piace tutta. E la sua musica, anche se non ho mai comprato i suoi dischi, non può non piacermi.
Vasco è come Lucio Dalla, ce l'hai dentro da sempre, anche se non te ne rendi conto.
Nonostante il volume di un concerto allo stadio, così tremendamente alto da non farti apprezzare armonie o parole. Nonostante il prezzo del biglietto sul prato, da fan di lusso. Nonostante i tappi delle bottigliette di plastica svitati prima di entrare e quelle di vetro (chiuse) vendute dentro. Nonostante il parcheggio dell'auto a due chilometri di distanza.
Così vado. Lo sento. Non tanto con le orecchie, come dicevo, ma con il cuore, con il corpo e pure col cervello. Perché quello che Vasco ha scritto non ha bisogno di giudizi e commenti. Perché la sua personalità stende, molto più dei decibel delle chitarre che lo accompagnano. Perché gli vuoi bene per quello che è, roba nostra. Roba unica.
"Adesso vorrei fare un discorso..." esordisce ad un tratto. Poi va verso il pubblico e dice: "Invece no". E se ne va.
Come fai a non amarlo.
Resisto due ore, lasciandomi andare al prato ogni tanto, e poi risorgendo. Perché anche se non vedo tanto e non sento bene, voglio essere lì, fino in fondo. Voglio arrivare ai bis, ai pezzi in cui l'onda sonora dovrà arrivare con meno forza e con più penetrazione. E finalmente riesco ad apprezzare qualche accordo, qualche parola dei suoi testi, essenziali e profondi.
Ci sono stata. Fino all'ultimo. Una specie di miracolo per me.
La scaletta, se volete, ve la ripeto.
Ventidue e trentacinque.
La pillola non l'ho presa ancora, ma il cuore è tranquillo, batte nel verso giusto, il verso che porta a te.
Non conosco la meta del mio viaggio, ma è così bello viaggiare che non vorrei mai fermarmi, e infatti non hanno mai tregua le mie dita sulla tastiera, che scrivono e pensano, pensano e viaggiano, da te a me, da me a tutto quello che c'è fuori da me, vicino e lontano, soprattutto lontano, quello che non riesco a raggiungere, nemmeno con l'immaginazione, quello che fa rima con la musica che sentono le mie orecchie, fa rima con i sorrisi, le lacrime, la leggerezza, l'acqua e l'aria fresca sul viso.
Più tempo passa nei miei occhi e più è grande la voglia di respirarla e di assaggiarla tutta questa vita, di non lasciarne neanche un momento al caso.
Ma neanche uno di quei momenti, passati, presenti e che verranno, è senza note.
Tutto è musica nella testa, nel cuore e nelle mani. Per questo temo la morte. Il silenzio non fa per me.
Suona sempre amore mio, suona per me, anche quando penserai che non ti ascolterò.
Suona sempre, non fermarti mai. Suona suona suona...
Seal - Love won't let me wait
Padre è chi ama senza condizioni né riserve.
Chi fa crescere e cresce insieme ai suoi figli.
Chi trema per le sue scelte senza darlo a vedere.
Chi è capace di negare per poi concedere.
Chi infonde sempre fiducia e coraggio anche se lui non ne ha.
Padre è chi perdona, perché accettando di esserlo, ha messo in conto anche il dolore e ciò che ne consegue.
Sono fortunata, ne ho conosciuti molti di uomini così, che sanno fare da padre, in piccoli frammenti di vita o anche per anni, ad altri figli incontrati per caso lungo la strada. Senza volerlo, magari senza saperlo.
Oggi voglio ringraziarli tutti, quelli che sono e quelli che sono stati. Soprattutto per me.
Il mio, ovviamente, apre la fila...
Father, son, locked as one, in this empty room
spine against spine, yours against mine, till the warmth comes through
Remember the breakwaters down by the waves
I first found my courage knowing daddy could save
I could hold back the tide, with my dad by my side.
Dogs, plows and bows, we move through each pose, struggling in our separate ways
mantras and hymns, unfolding limbs, looking for release through the pain
and the yogi's eyes are open, looking up above, he too is dreaming of his daddy's love,
with his dad by his side, got his dad by his side.
Can you recall how you took me to school, we couldn't talk much at all
It's been so many years and now these tears guess I'm still your child
Out on the moors, we take a pause, see how far we have come
You're moving quite slow, how far can we go father and son
with my dad by my side, with my dad by my side, got my dad by my side with me.
spine against spine, yours against mine, till the warmth comes through
Remember the breakwaters down by the waves
I first found my courage knowing daddy could save
I could hold back the tide, with my dad by my side.
Dogs, plows and bows, we move through each pose, struggling in our separate ways
mantras and hymns, unfolding limbs, looking for release through the pain
and the yogi's eyes are open, looking up above, he too is dreaming of his daddy's love,
with his dad by his side, got his dad by his side.
Can you recall how you took me to school, we couldn't talk much at all
It's been so many years and now these tears guess I'm still your child
Out on the moors, we take a pause, see how far we have come
You're moving quite slow, how far can we go father and son
with my dad by my side, with my dad by my side, got my dad by my side with me.
Mi sono rotta un piede, la scorsa estate, per fare la splendida sopra tacchi di oltre 12 centimetri.
La Grande Bellezza l'ho visto su una carrozzina, in un'arena all'aperto piena di zanzare e di rumori, passaggi intermittenti della metropolitana che viaggia all'aperto, a pochi metri da lì.
Roma non è solo Bellezza. E' anche rumore, puzza e fastidio. Se la conosci bene lo sai che è anche molto brutta, sporca,
distratta, insensibile, crudele, cieca e sorda.
Colpa di tutti, di quelli che ci vivono e di quelli che ci passano.
Ineducati, irrispettosi e poco lungimiranti.
A me il film ha divertito. Non mi è dispiaciuto, non mi è piaciuto. Bella la fotografia, la regia, la sceneggiatura. Il cinema è arte, e l'arte è emozione, e certamente questo film ne suscita di emozioni. Belle e brutte.
A me ha fatto ridere, intristire, a tratti m'ha pure fatto schifo.
Forse la cosa migliore che ha saputo fare Sorrentino in questo film, è tirare fuori il meglio da ogni singolo partecipante. La Ferilli può fare la Ferilli; e l'ha fatta bene. Verdone può fare l'attore drammatico; e l'ha dimostrato. Serena Grandi può fare quello che ha fatto. Servillo può fare tutto.
Roma, dal canto suo, è unica nella parte de La Magnifica, presa a pretesto, suo malgrado, per rappresentare ogni genere di bellezza, quella dei luoghi e quella dell'umanità tutta.
Perché Roma è così, si è sempre prestata a tutto. Anche per questo è immortale.
Posso vedere 'La Grande Bellezza'?
No.
Perché?
Non è un film per te.
Ma io sono grande!
Non abbastanza.
Non abbastanza per cosa?
Non hai mai visto Fellini, non conosci il cinema degli anni '60. Non sai chi era Serena Grandi prima di diventare così. Non hai mai ballato e cantato come una pazza le canzoni di Raffaella Carrà. Non sai com'era bella Roma quarant'anni fa.
Ma è un bel film?
Sì e no.
Cioé?
Un bel film è qualcosa che emoziona. Questo di certo lo fa, ma niente altro.
Perché?
Perché una bella copia è comunque una copia.
Ma ha preso l'Oscar!
Sembra che la mediocrità sia un male di cui si stia ammalando tutto il mondo.
???
Se non ci sono cose belle, i premi vanno a quelle meno brutte.
Ma tu che vedi stasera?
Credo che vedrò la trasmissione su Lucio Dalla su Raidue, oggi era, è, il suo compleanno. Sarà retorico, come tutti gli omaggi, ma... preferisco quello.
La Grande Bellezza due volte, no. Le canzoni di Dalla milioni di volte, sì.A far l'amore comincia tu - R.Carrà, B.Sinclar
Sto ancora smaltendo la sbornia sanremese.
A due giorni dal termine della manifestazione ancora non riesco a parlare d'altro. E mi scappa da scrivere, perché c'è ancora chi si stupisce o viene deluso dalla presenza di certe figure al Festival. Perché?
Sanremo è una vetrina ambitissima, una delle poche, in Italia, a garantire una tale visibiltà in così pochi giorni.
Perchè un cantante famoso non dovrebbe parteciparvi? Lo vedono almeno sette/otto milioni di persone. Nei giorni successivi ne parleranno altri svariati milioni. E se fa "l'ospite" lo pagano pure, e profumatamente. Dov'è il compromesso, dov'è la vergogna di cui qualcuno parla? E anche ammesso che qualcuno, in passato, l'abbia snobbato e ora non lo faccia più, da dove viene lo stupore?
I cantanti fanno solo quello che fa ciascuno di noi: tirano acqua al proprio mulino.
Allora penso a quando un album, per conquistare un Disco d'Oro, doveva vendere 1 milione di copie. Uno dei primi artisti italiani ad ottenerlo fu Domenico Modugno. Il suo "Nel blu dipinto di blu" ne vendette addirittura 22 di milioni...
Per carità, di canzoni come quella non se ne scrivono tutti i giorni, ma è così triste pensare che nel 2014, per ottenere il Disco d'Oro, basta venderne 25.000.
L'inguaribile crisi del mercato discografico viene tamponata tagliando, a colpi di machete, il numero di copie necessarie per conquistarlo, e annoverando, tra le copie, anche quelle digitali. Un po' come si fa per i livelli consentiti di inquinanti nell'aria. Brutta storia.
Così come aumentano i tumori e le malattie causate dallo smog, allo stesso modo la discografia si ammala sempre più, cercando di nascondere la mano con cui fuma la sigaretta che la ucciderà. Modifica i criteri per la certificazione delle vendite ma, soprattutto, produce prodotti più che mediocri - che ci somministra spudoratamente, a dosi massicce - che spesso puntano su un personaggio popolare (magari per motivi diversi da quelli artistici), su un prodotto del momento. Che come ogni moda è destinato a passare. Ma in fondo, il mercato si è solo adeguato.
Qualcuno dice che è colpa della pirateria. Ma per piacere...
Come spesso accade, il sistema stesso è responsabile (complice di sicuro) della morte del sistema stesso.
Negli anni '80, quando i prezzi dei dischi erano alle stelle, si diceva che i costi così elevati fossero dovuti alle spese sostenute per finanziare i nuovi impianti di produzione per i nuovissimi CD. Le riviste specializzate e gli stessi negozi di dischi cominciarono a denigrare il vinile e, piano piano, giradischi, bracci e puntine divennero oggetti malvisti, innominabili e introvabili. Già...
Il Compact Disc costava la metà di un disco vinile e rendeva il doppio. Solo che costava pure il doppio.
E' stato lì, in quegli anni, che è cominciata la crisi. E, mi dispiace ammetterlo, tutto questo è accaduto per una precisa strategia, decisa proprio a tavolino. La pirateria è sopraggiunta di rincorsa, ovviamente. E c'ha inzuppato il biscotto.
Ne parlo oggi con tristezza, con una decennale nostalgia per il vinile appena lenita però dal recente accoglimento, in famiglia, di un piatto perfettamente funzionante.
Con cui suonare di nuovo dischi che non avrei mai avuto il coraggio di eliminare.
Ora devo proprio andare.
Ho Mario Del Monaco sul piatto.
A due giorni dal termine della manifestazione ancora non riesco a parlare d'altro. E mi scappa da scrivere, perché c'è ancora chi si stupisce o viene deluso dalla presenza di certe figure al Festival. Perché?
Sanremo è una vetrina ambitissima, una delle poche, in Italia, a garantire una tale visibiltà in così pochi giorni.
Perchè un cantante famoso non dovrebbe parteciparvi? Lo vedono almeno sette/otto milioni di persone. Nei giorni successivi ne parleranno altri svariati milioni. E se fa "l'ospite" lo pagano pure, e profumatamente. Dov'è il compromesso, dov'è la vergogna di cui qualcuno parla? E anche ammesso che qualcuno, in passato, l'abbia snobbato e ora non lo faccia più, da dove viene lo stupore?
I cantanti fanno solo quello che fa ciascuno di noi: tirano acqua al proprio mulino.
Allora penso a quando un album, per conquistare un Disco d'Oro, doveva vendere 1 milione di copie. Uno dei primi artisti italiani ad ottenerlo fu Domenico Modugno. Il suo "Nel blu dipinto di blu" ne vendette addirittura 22 di milioni...
Per carità, di canzoni come quella non se ne scrivono tutti i giorni, ma è così triste pensare che nel 2014, per ottenere il Disco d'Oro, basta venderne 25.000.
L'inguaribile crisi del mercato discografico viene tamponata tagliando, a colpi di machete, il numero di copie necessarie per conquistarlo, e annoverando, tra le copie, anche quelle digitali. Un po' come si fa per i livelli consentiti di inquinanti nell'aria. Brutta storia.
Così come aumentano i tumori e le malattie causate dallo smog, allo stesso modo la discografia si ammala sempre più, cercando di nascondere la mano con cui fuma la sigaretta che la ucciderà. Modifica i criteri per la certificazione delle vendite ma, soprattutto, produce prodotti più che mediocri - che ci somministra spudoratamente, a dosi massicce - che spesso puntano su un personaggio popolare (magari per motivi diversi da quelli artistici), su un prodotto del momento. Che come ogni moda è destinato a passare. Ma in fondo, il mercato si è solo adeguato.
Qualcuno dice che è colpa della pirateria. Ma per piacere...
Come spesso accade, il sistema stesso è responsabile (complice di sicuro) della morte del sistema stesso.
Negli anni '80, quando i prezzi dei dischi erano alle stelle, si diceva che i costi così elevati fossero dovuti alle spese sostenute per finanziare i nuovi impianti di produzione per i nuovissimi CD. Le riviste specializzate e gli stessi negozi di dischi cominciarono a denigrare il vinile e, piano piano, giradischi, bracci e puntine divennero oggetti malvisti, innominabili e introvabili. Già...
Il Compact Disc costava la metà di un disco vinile e rendeva il doppio. Solo che costava pure il doppio.
E' stato lì, in quegli anni, che è cominciata la crisi. E, mi dispiace ammetterlo, tutto questo è accaduto per una precisa strategia, decisa proprio a tavolino. La pirateria è sopraggiunta di rincorsa, ovviamente. E c'ha inzuppato il biscotto.
Ne parlo oggi con tristezza, con una decennale nostalgia per il vinile appena lenita però dal recente accoglimento, in famiglia, di un piatto perfettamente funzionante.
Con cui suonare di nuovo dischi che non avrei mai avuto il coraggio di eliminare.
Ora devo proprio andare.
Ho Mario Del Monaco sul piatto.
Nel blu dipinto di blu - D.Modugno
Dopo due giorni di full immersion nel Festival più scontato del mondo, un po' per dovere un po' per piacere spendo qualche riga in più di quelle concesse in un tweet, dicendo innanzitutto che sono contenta di aver tenuto duro, ieri sera, fino all'arrivo delle Nuove Proposte. Devo ancora capire se mi siano piaciute perché paragonate alla mediocrità di quello che ho sentito prima o se perché in effetti valgano qualcosa. Comunque, i cosiddetti "emergenti" se la sono cavata molto meglio dei colleghi annoverati nella categoria superiore (Zibba e Diodato mi sono piaciuti molto). Tanto che, in piena notte, fantasticavo su una prossima edizione fatta solo di facce nuove. Un po' come ci auguriamo possa succedere in politica. Ma non succederà in politica, e non succederà neanche a Sanremo.
Il tentativo di risollevare le sorti della musica leggera italiana, una volta l'anno, tramite una manifestazione del genere, è penoso e triste. Tanto varrebbe stravolgerlo veramente il festival e dare più chance a chi fa fatica a farsi conoscere. Ma il mio è un suggerimento che lascia il tempo che trova. Anche perché i pochi giovani che riescono a farsi notare vengono divorati dalla famelicità delle case discografiche che li sfruttano battendo il ferro finchè è caldo e se ne fregano di curare un prodotto nuovo con l'attenzione che necessiterebbe il neonato, per farlo crescere sano e bello, invece che farlo bruciare nel giro di due album. Mi chiedo se ci sia al mondo qualcuno che condivida le mie osservazioni.
Tornando allo show e al mio lavoro, ho trovato Fazio professionale, Littizzetto noiosa; buona la regia, ottime le luci, brava l'orchestra (anche se mi sarebbe piaciuto pure vederla, così come da promessa di Forzano, che prima di iniziare gongolava per la nuova "spider-cam" con cui voleva far miracoli).
Pur apprezzando lo sforzo (si fa per dire) di alcuni artisti a partecipare ad una manifestazione che cerca, nel suo piccolo, di aiutare un paese in crisi e le sue finanze (ci dicono quanto costa, ma vorrei tanto sapere e nessuno mi dirà mai, quanto guadagna Sanremo), personalmente avrei evitato l'autocelebrazione di mamma Rai e del suo 60esimo compleanno. Se non altro, in serate già tanto lunghe per natura, ci saremmo evitati le cariatidi di cui, ahimè, l'Ariston pullula. Per carità, li adoro tutti, dalla Carrà a Baglioni, ma qui ho bisogno di facce nuove. E ho bisogno di quello che mi aspetto arrivi da una manifestazione canora: canzoni!
Invece noto con tristezza che delle canzoni c'è poco e niente.
Ma nessuno scrive più canzoni? Quelle che raccontavano una storia, quelle che hanno una melodia che ti resta in mente per decenni, quelle che rendono la musica insostituibile?
In due giorni ho sentito un mucchio di note e un mucchio di parole che sembravano essere state buttate a forza nel sacchetto dello Scarabeo per poi essere ripescate a caso, nel tentativo di formare qualcosa di senso compiuto.
Se non ho niente da dire, io non scrivo. Gradirei la stessa accortezza da parte degli altri. Così non è.
E allora ci becchiamo quello che c'è. Che almeno fa guadagnare a qualcuno, nella peggiore delle ipotesi, qualche migliaio di euro di Siae.
Peccato per la musica. Peccato per l'Italia. Peccato per tutti noi.
Il tentativo di risollevare le sorti della musica leggera italiana, una volta l'anno, tramite una manifestazione del genere, è penoso e triste. Tanto varrebbe stravolgerlo veramente il festival e dare più chance a chi fa fatica a farsi conoscere. Ma il mio è un suggerimento che lascia il tempo che trova. Anche perché i pochi giovani che riescono a farsi notare vengono divorati dalla famelicità delle case discografiche che li sfruttano battendo il ferro finchè è caldo e se ne fregano di curare un prodotto nuovo con l'attenzione che necessiterebbe il neonato, per farlo crescere sano e bello, invece che farlo bruciare nel giro di due album. Mi chiedo se ci sia al mondo qualcuno che condivida le mie osservazioni.
Tornando allo show e al mio lavoro, ho trovato Fazio professionale, Littizzetto noiosa; buona la regia, ottime le luci, brava l'orchestra (anche se mi sarebbe piaciuto pure vederla, così come da promessa di Forzano, che prima di iniziare gongolava per la nuova "spider-cam" con cui voleva far miracoli).
Pur apprezzando lo sforzo (si fa per dire) di alcuni artisti a partecipare ad una manifestazione che cerca, nel suo piccolo, di aiutare un paese in crisi e le sue finanze (ci dicono quanto costa, ma vorrei tanto sapere e nessuno mi dirà mai, quanto guadagna Sanremo), personalmente avrei evitato l'autocelebrazione di mamma Rai e del suo 60esimo compleanno. Se non altro, in serate già tanto lunghe per natura, ci saremmo evitati le cariatidi di cui, ahimè, l'Ariston pullula. Per carità, li adoro tutti, dalla Carrà a Baglioni, ma qui ho bisogno di facce nuove. E ho bisogno di quello che mi aspetto arrivi da una manifestazione canora: canzoni!
Invece noto con tristezza che delle canzoni c'è poco e niente.
Ma nessuno scrive più canzoni? Quelle che raccontavano una storia, quelle che hanno una melodia che ti resta in mente per decenni, quelle che rendono la musica insostituibile?
In due giorni ho sentito un mucchio di note e un mucchio di parole che sembravano essere state buttate a forza nel sacchetto dello Scarabeo per poi essere ripescate a caso, nel tentativo di formare qualcosa di senso compiuto.
Se non ho niente da dire, io non scrivo. Gradirei la stessa accortezza da parte degli altri. Così non è.
E allora ci becchiamo quello che c'è. Che almeno fa guadagnare a qualcuno, nella peggiore delle ipotesi, qualche migliaio di euro di Siae.
Peccato per la musica. Peccato per l'Italia. Peccato per tutti noi.
© Caterina Somma
Fazio - al suo secondo anno come timoniere, conduttore e direttore artistico - illustra il programmino con chiarezza e concisione invidiabili, aiutato da una Littizzetto in versione formale, stranamente silente.
Espone i temi del Festival ("La Bellezza" e "I 60 anni della Rai"), parla della straordinaria, romantica scenografia e passa la parola alla sua partner, che si mostra felice di essere nuovamente al suo fianco, soprattutto per aver di nuovo la possibilità di mangiare ancora gli "agnolotti di borraggine" e quella di vestire abiti firmati, quest'anno di Gucci.
Si parla di Pif (Pierfrancesco Diliberto), da MTV, che condurrà il Pre-Festival, ovvero l'Anteprima, e di Filippo Solibello e Marco Ardemagni di Caterpillar, che gestiranno invece il Dopo-Festival esclusivamente sul web, in live streaming. Ma si parla soprattutto di ospiti: Raffaella Carrà, Renzo Arbore, Franca Valeri, Claudio Baglioni, Gino Paoli, Enrico Brigano e Luca Parmitano (l'astronauta), facce di casa insomma (tra cui annoveriamo anche Laetizia Casta), tanto per fare da contraltare ad una serie di stranieri tra cui Paolo Nutini, Yusuf Islam (ovvero Cat Stevens), il cantautore belga Stromae e quello canadese Rufus Wainwright. Garantita anche la partecipazione di una parte dell'Orchestra Mozart, che renderà omaggio allo scomparso maestro Abbado.
Come al solito, a giudicare le canzoni (attenzione, non i cantanti!) saranno il televoto, la giuria della stampa e i giurati di qualità (solo nelle ultime due serate). Anche quest'anno, ognuno dei 14 big porterà due canzoni tra le quali il pubblico dovrà scegliere la preferita da portare avanti nella gara. Per i giovani, 8 nuove proposte che si preannunciano - come al solito - qualitativamente degne dei big. Il venerdì, serata "Sanremo Club" (sintesi tra Festival di Sanremo e Club Tenco Club) dove i Big potranno esibirsi in un altro brano, scelto tra le più belle canzoni italiane d'autore.
Dopo la prima mezz'ora di conferenza, Mauro Pagani è il primo a riportare l'attenzione su quello che dovrebbe essere l'argomento principale, la musica, e a prendere le parti dei musicisti, cercando di difendere e proteggere una categoria sempre meno considerata.
Dopo una cinquantina di minuti la Littizzetto ha un sussulto, e in una piccola pausa infila un "Mangiamo?", pensando al rinfresco che segue ogni conferenza stampa che si rispetti (e motivo per cui tanti colleghi accorrono a certi eventi).
Fazio, professionale e sorridente, garantisce "canzoni non sanremesi... ma all'insegna della contemporaneità..." anche se con "un paio d'eccezioni evidenti". E promette "una settimana di leggerezza che, speriamo, faccia bene". Speriamo sia così.
E' difficile fare uno spettacolo leggero senza contare sul peso della buona musica.
Caterina Somma
lippo
Solibello e Marco Ardemagni, conduttori di “Caterpillar AM”, uno dei
programmi di punta di Radio2. - See more at:
http://sanremo.blog.rai.it/2014/02/10/dopofestival-in-diretta-esclusiva-sul-web/#sthash.bM65zZkf.dpuf
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Cosa vuoi?
Vivere
Cosa ti piace?
Piacere
Chi vuoi?
Chi mi vuole veramente
Non ti importa chi?
Importa che ci sia
Come vuoi essere?
Posso essere quello che voglio, ma anche quello che vuoi
Non t'importa essere te stessa?
M'importa essere felice. Come, dove, con chi, può variare
Cosa sogni?
L'amore. Che altro?
C.S.
John Mayer - Say what you need to say
Se crediamo che sia il destino a mettersi di traverso per evitare di farci incontrare, allora potremo dire che non ci riusciremo neanche stavolta.
Promettimi che non sarà così.
Con il sole o con la pioggia, per molto o per pochissimo tempo. In auto, in treno o a piedi. Qui o là.
Basta che finisca questo tempo, quest'attesa, che comunque amo perché ci ha fatto conoscere come non mai, come forse non avremmo mai fatto se avessimo continuato a vederci.
Te lo dico convinta, e forte del fatto che so che lo vuoi anche tu. E anche perché so che il sesso c'entra poco o niente. Ce lo chiede la testa.
Poi sarà... meglio, o peggio forse. Lo scopriremo solo col tempo.
Ma t'avrò visto.
T'avrò abbracciato.
Avrò sentito la tua voce, le tue pause, le tue risate.
Di nuovo. Da nuovi.
Il cuore ha bisogno di pace. Ed io ho sempre fatto quello che voleva.
Lo devo a me stessa.
Lo devo a te.
Lo devo anche a chi amo, e mi ama perché sono così.
Vera.
C.S.
Baby Come To Me - James Ingram ft. Patti Austin
Crescendo (o invecchiando?) ci si irrigidisce, si diventa insofferenti. Forse è per questo che oggi non sopporto tante cose. O, forse, ci sono cose che risultano veramente insopportabili... Magari a tutti.
Ero ragazzina, quando sentivo gli adolescenti romani che, ogni due parole, sentivano l'esigenza di ficcarci dentro un cioè. Mio padre me lo faceva notare, divertito. A me, sinceramente, faceva ridere fino ad un certo punto. Quando avevo davanti qualcuno che parlava così, avevo sempre l'impressione che il mio interlocutore avesse qualcosa in bocca di fastidioso da sputare. La generazione dei cioè diceva di avere tanto da spiegare al mondo, a me sembrava invece che non ci riuscisse proprio a spiegare nulla, almeno non a parole. Quello che più di tutto attirava la mia attenzione era questa massa di ragazzotti molleggianti a cui bastava infilare in un discorso parole come popolo, sistema, capitalista, società e, grazie a qualche cioè, il gioco era fatto. Chi ascoltava avrebbe dovuto aver chiaro quello che aveva da dire.
A quell'epoca ero troppo piccola per interessarmi al sociale né tantomeno alla politica, ma tutti quei discorsi mi lasciavano perplessa. Forse perché, dall'altra parte, avevo la fortuna di poter ascoltare gente che non aveva bisogno di nomi, avverbi e locuzioni per esprimere concetti a cui bastavano abbondantemente i termini dello Zingarelli per essere espressi. E senza che all'altro restasse il minimo dubbio.
Tutti quei cioè, non so se mi spiego, capisci, no?, biascicati tra una ciancicata (=masticata) e l'altra di gomma americana - in un discorso dove "il lei" era praticamente inesistente - distoglievano comunque la mia attenzione da qualsiasi concetto, anche il più sensato (qualcuno lo sarà stato di certo). Oltre al cioé, anche il praticamente non era male... Un
altro tristissimo tentativo di spiegarsi meglio che però, rispetto al cioè,
aveva una marcia in più. Il praticamente era "fico". Perché lo usava chi
già aveva vissuto l'esperienza che stava per raccontarti e, in quel
modo, cercava di rivelarti (per amicizia) la "dritta" che ti avrebbe
facilitato la vita. Il praticamente non era odioso come il cioè, ma devo ammettere che, per quanto mi riguarda, la
sua sopportazione dipendeva dal numero di ripetizioni nella
stessa frase.
Ma non voglio fare un trattato sul post '68, non voglio parlare di figli dei fiori nè di fricchettoni. Poco cambia, per me, se a dire stupidaggini erano compagni o camerati.
E non voglio nemmeno parlare degli intercalari più comuni usati in italiano di cui si può fare una lista lunghissima: dal voglio dire a un attimino, alle parole oscene più o meno desemantizzate o eufemizzate, ai forestierismi (you know, bon), ai termini dialettali o alle parole che appartengono al solo linguaggio giovanile (un sacco oggi un botto, bella oppure scialla...).
Ho solo voglia di mettere nero su bianco quello che non sopporto, oggi.
Lo ammetto: è stato l'avvento del piuttosto che usato impropriamente a farmi venir voglia di scrivere questo post. E mi conforta, una volta tanto, leggere anche su Wikipedia (qualcosa di buono si trova anche là!) che l'odio verso tale uso scorretto dell'espressione (leggetelo dopo, se vi va) non è solo mio.
Quello che avverto - e a quanto pare non sono la sola - è che se in passato l'uso errato delle parole così come degli intercalari era proprio di persone ignoranti o poco pratiche della lingua, oggi è un vezzo che sa di snob, e quindi colpisce trasversalmente, senza distintinzione, gente di ogni cultura, ogni età, ogni ceto sociale.
La cosa triste è che praticamente nessuno si arrabbia, nessuno fa notare niente a nessuno, primi fra tutti alcuni colleghi che, spesso e volentieri, per radio, televisione e perfino per iscritto, incorrono in orrori del genere.
Cosa mi fa andare in bestia ultimamente? L'assolutamente sì (come l'assolutamente no). Forse, nella società odierna, veloce e distratta, si sente il bisogno di rafforzare ogni singola affermazione (o negazione). Ma a nessuno viene in mente che chi lo subisce, forse, potrebbe capire le intenzioni di chi parla grazie a semplici sì e no?
Bene. La scrittura ha assolto, come sempre, la funzione di sfogo. E naturalmente vi autorizza, da qui all'eternità, a correggermi, ogni qualvolta dovessi incappare in orrori simili.
Ora sono meno arrabbiata. E mi godo con voi Ruggero, il fricchettone.
Tanto di cappello al signor Verdone...
Inevitabile, ogni Capodanno, fare un piccolo bilancio di quello che è stato l'anno precedente. Come è ovvio che sia, c'è la fazione degli "insoddisfatti" e quella dei "grati", che dovrebbero spartirsi la torta dei doni dell'anno più o meno al cinquanta per cento. Ma vuoi per la crisi, vuoi perché è più facile e più popolare vedere il bicchiere mezzo vuoto, negli ultimi anni gli "insoddifatti" sembrano dominare la scena.
Per questo mi sono stupita, stamani, quando ho sentito un'intervista alla campionessa di fondo Valeria Straneo che, dopo l’operazione alla milza che l’ha guarita dalla sferocitosi, ha avuto una escalation rapidissima che l'ha portata ai vertici dell’atletica internazionale. Nell'intervista, la maratoneta si dichiarava (quasi imbarazzata nel farlo) strafelice dell'anno appena trascorso, per le grandi ed inaspettate soddisfazioni dal punto di vista atletico.
Io non appartengo, per default, ad una o all'altra categoria. Ma quest'anno, ahimè, anche se qualcosa di buono sempre c'è, devo schierarmi con i più. Non mi lamento, non mi piace farlo, ma se potessi li cancellerei tutti i dodici mesi del 2013. Il mio essere un po' strega l'aveva previsto il buio, facendomi affrettare a concludere tutti gli impegni più importanti entro dicembre 2012. Non so perché l'ho fatto, non c'era niente che potesse farmi supporre nulla, a parte un Giove in opposizione e un personale Saturno in dodicesima casa, quella delle prove, dalla quale non schioda da tempo (di cui però non si può parlare al mondo...), e a parte una congenita allergia verso il numero 13, in tutte le sue forme. Si chiama triscaidecafobia - l'ho imparato di recente - e trattasi di una paura del tutto immotivata, verso il suddetto numero. Oddio, immotivata poi... se ha origine da Giuda in esubero alla tavola di Cristo, tanto immotivata non mi sembra; così come non mi pare felice se nei Tarocchi la carta numero tredici è la Morte. Hai voglia a dirmi che non è una carta negativa perché rappresenta la rinascita...
Tornando al mio discorso, come stavo dicendo il 13 a me non piace affatto, e m'ha sempre dato fastidio. Come quella volta che per non averlo barrato, dopo aver girato più volte la penna sopra al suo cerchietto, ho saltato la più grossa vincita della storia al Superenalotto. Come quell'altra in cui ho comprato una casa all'interno 13 (perché non bado a queste cose, io) che m'ha dato problemi già da prima del compromesso. Non sono scaramantica, almeno non nel senso più puro del termine. Ma ho imparato, nella vita, a fidarmi del mio istinto, e a fare le cose che ritengo opportuno fare quando mi sento di farle. Finora m'ha detto bene.
Comunque... siccome nella vita io il bicchiere lo vedo quasi sempre mezzo pieno, oggi che l'anno è giunto al termine, mi va di pensare al fatto che il numero 13 è associato alla fine di un ciclo, ergo, precede nuovi inizi. [Tredici sono i mesi lunari ogni anno solare, tredici i segni dell'astrologia celtica, tredici i suoni di ogni ottava cromatica (le note di ogni ottava, comprese quelle alterate con diesis e bemolle) e sommando i primi 13 numeri si ottiene 81, ossia il numero di giorni da cui è composta ogni stagione climatica].
Insomma, ho fatto tutta 'sta caciara, pardon, tutto questo parlare, solo per dire e per dirvi che spero con tutto il cuore che il 2014 sia migliore del precedente. Sotto tutti i punti di vista. Per tutti quanti. Per ogni cosa. Per un nuovo inizio.
Auguri, auguri a tutti.
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