Grazie a chi me l'ha segnalato... così il Natale è più bello!
Ti voglio bene!
Domani voglio formare una squadra di calcio. Io sono l'allenatore e il presidente, sono anche quello che intasca gli incassi. Chi chiamo a far parte della mia squadra? I miei amici, o chi gioca bene a pallone? Certo, ci fosse qualcuno, tra i miei amici, che gioca anche bene a pallone... Ma è molto probabile che i giocatori più bravi sul mercato non siano gli stessi uomini con cui preferisco uscire o andare a cena fuori.
Domani voglio fare una trasmissione televisiva. Probabilmente devo qualcosa alla rete che ospita il mio programma, ma se la rete vuole me, probabilmente accetta le mie proposte. E i miei collaboratori. Ma io devo fare e ho tutto l'interesse a fare una trasmissione che funziona. Vorrei il regista più bravo, lo scenografo più spettacolare, un costumista di classe, dei coautori che sappiano scrivere. Eppure di amici che sanno scrivere ne ho... Tra questi, però, non ci sono solo romanisti come me. Di bravi ce ne sono, e sono della Roma, della Lazio, della Juve, dell'Inter, del Napoli... E per fare una bella trasmissione, va bene anche essere di destra e di sinistra, o un po' di destra e un po' di sinistra, di centro o di niente. Tanto, ognuno dovrebbe SOLO fare bene il suo mestiere. Per bene, insieme, per un fine comune. Senza che nessuno cambi necessariamente idea.
Domani farò qualcosa di buono. Perché vorrò e saprò farla. E spero di essere accompagnata da chi è capace di farlo.
Domani voglio fare una trasmissione televisiva. Probabilmente devo qualcosa alla rete che ospita il mio programma, ma se la rete vuole me, probabilmente accetta le mie proposte. E i miei collaboratori. Ma io devo fare e ho tutto l'interesse a fare una trasmissione che funziona. Vorrei il regista più bravo, lo scenografo più spettacolare, un costumista di classe, dei coautori che sappiano scrivere. Eppure di amici che sanno scrivere ne ho... Tra questi, però, non ci sono solo romanisti come me. Di bravi ce ne sono, e sono della Roma, della Lazio, della Juve, dell'Inter, del Napoli... E per fare una bella trasmissione, va bene anche essere di destra e di sinistra, o un po' di destra e un po' di sinistra, di centro o di niente. Tanto, ognuno dovrebbe SOLO fare bene il suo mestiere. Per bene, insieme, per un fine comune. Senza che nessuno cambi necessariamente idea.
Domani farò qualcosa di buono. Perché vorrò e saprò farla. E spero di essere accompagnata da chi è capace di farlo.
"Settebello" (1960) |
Stanno uscendo. Uno alla volta, i minatori cileni intrappolati nelle viscere della terra da oltre due mesi, con la calma indispensabile ad operazioni del genere. Mentre scrivo sono a quota 9 e, ora dopo ora, aspetto che il conto arrivi a 33, cifra fatidica che ha scatenato i patiti di numerologia (uguale alla somma delle cifre della data del salvataggio 13-10-10) e che rievoca pensieri biblici, alimentati dalle dichiarazioni del secondo dei minatori a rivedere la luce del sole, Mario Sepulveda: "Sono stato reclamato da Dio e dal diavolo, hanno combattuto e alla fine Dio mi ha vinto".
Ma noi italiani, questa passione l'abbiamo già vissuta. Quasi trent'anni fa. Nessuno di quelli che, increduli, hanno assistito in diretta all'agonia di Alfredo Rampi, riusciva a immaginare quello che sarebbe avvenuto. La sua voce era lì, solo ottanta metri più in basso, in quel pozzo maledetto. E poi il silenzio. Non riuscivamo a spegnere la televisione. Non potevamo accettare una fine così.
Ventinove anni dopo riviviamo quell'incubo, e ad ogni minatore che risale in superficie risale anche un pezzetto del sorriso di Alfredino, lui che non ce l'ha fatta e che certo starà assistendo a questo salvataggio, guidando i passi e le mani di chi lavora per fare il miracolo.
Tirare fuori. Dal profondo.
Necessita di tanto tempo, è faticoso, fa male.
Occorre pazienza, volontà, aiuto.
Ma quando qualcosa comincia ad uscire, il processo è inarrestabile.
E tu non sei più quello di prima. O forse torni ad esserlo.
Ma noi italiani, questa passione l'abbiamo già vissuta. Quasi trent'anni fa. Nessuno di quelli che, increduli, hanno assistito in diretta all'agonia di Alfredo Rampi, riusciva a immaginare quello che sarebbe avvenuto. La sua voce era lì, solo ottanta metri più in basso, in quel pozzo maledetto. E poi il silenzio. Non riuscivamo a spegnere la televisione. Non potevamo accettare una fine così.
Ventinove anni dopo riviviamo quell'incubo, e ad ogni minatore che risale in superficie risale anche un pezzetto del sorriso di Alfredino, lui che non ce l'ha fatta e che certo starà assistendo a questo salvataggio, guidando i passi e le mani di chi lavora per fare il miracolo.
Tirare fuori. Dal profondo.
Necessita di tanto tempo, è faticoso, fa male.
Occorre pazienza, volontà, aiuto.
Ma quando qualcosa comincia ad uscire, il processo è inarrestabile.
E tu non sei più quello di prima. O forse torni ad esserlo.
Un giornalista. Diventarlo non era nei miei piani, esserlo però mi ha sempre dato gioia ed orgoglio. Quasi sempre. Ma non in sere come questa.
Lavorare sulle notizie, essere pagati per parlare di quello che succede nel mondo, non è gloria, non è forza, non è superiorità. E' lavoro. Un lavoro che è soprattutto un dovere. Un dovere che ha, o dovrebbe avere, chiunque ha il potere di far vedere ad altri, con i propri occhi, la realtà che ci circonda. Così come la cronaca, specie quella nera, non è spettacolo. Non è quello show ignobile a cui assisto ogni giorno.
Questo lavoro, invece, diventa spesso un vantaggio per fare una buona carriera, una spinta per guadagnare più soldi e un contratto privilegiato, un mezzo per ottenere ancora più potere di quanto già se ne abbia. Che, se ottenuto così, inevitabilmente sarà un potere malato, in grado di fare male, ancora di più e sempre di più.
Che carriera. A quale prezzo e con quale cuore è possibile farla.
Stasera quella disgustosa macchina mediatica che è oggi la televisione mi fa orrore. Mi fa schifo la tv della dolore, e mi fa schifo l'enorme quantità di persone asservite alla legge dei numeri, a servizio della conquista dello share. Colleghi che si sentono costretti a fare scalpore, per scongiurare il rischio di fare la valigia in caso di inadempimento (tanto di chi è disposto a farlo c'è una lunga fila), persone che che per giustificare le proprie colpe si nascondono dietro ai doveri di una presunta televisione di servizio. Che però - ma guarda un po'! - è sempre sotto la legge del dio share. Che potrebbe anche essere l'unico obiettivo di un'azienda, ma non può essere "l'obiettivo". A scapito della dignità dell'uomo.
Si può perdonare, perché non sanno quello che fanno?
No. Perché lo sanno.
Lavorare sulle notizie, essere pagati per parlare di quello che succede nel mondo, non è gloria, non è forza, non è superiorità. E' lavoro. Un lavoro che è soprattutto un dovere. Un dovere che ha, o dovrebbe avere, chiunque ha il potere di far vedere ad altri, con i propri occhi, la realtà che ci circonda. Così come la cronaca, specie quella nera, non è spettacolo. Non è quello show ignobile a cui assisto ogni giorno.
Questo lavoro, invece, diventa spesso un vantaggio per fare una buona carriera, una spinta per guadagnare più soldi e un contratto privilegiato, un mezzo per ottenere ancora più potere di quanto già se ne abbia. Che, se ottenuto così, inevitabilmente sarà un potere malato, in grado di fare male, ancora di più e sempre di più.
Che carriera. A quale prezzo e con quale cuore è possibile farla.
Stasera quella disgustosa macchina mediatica che è oggi la televisione mi fa orrore. Mi fa schifo la tv della dolore, e mi fa schifo l'enorme quantità di persone asservite alla legge dei numeri, a servizio della conquista dello share. Colleghi che si sentono costretti a fare scalpore, per scongiurare il rischio di fare la valigia in caso di inadempimento (tanto di chi è disposto a farlo c'è una lunga fila), persone che che per giustificare le proprie colpe si nascondono dietro ai doveri di una presunta televisione di servizio. Che però - ma guarda un po'! - è sempre sotto la legge del dio share. Che potrebbe anche essere l'unico obiettivo di un'azienda, ma non può essere "l'obiettivo". A scapito della dignità dell'uomo.
Si può perdonare, perché non sanno quello che fanno?
No. Perché lo sanno.
Stavolta dicono sia proprio vero! Un altro pianeta compatibile con la vita l'hanno trovato veramente.
E' roccioso, abbastanza grande (4 volte la terra) e un po' freddino (la temperatura media di superficie oscilla fra i -31 e i -12 gradi centigradi), ma ci si può andare. Si trova a soli 20 anni luce dal nostro sistema solare.
Nonostante sia nella costellazione della Bilancia, non sembra però molto... poetico.
Già dal nome. Si chiama Gliese 581g. Impiega solo 37 giorni per fare il giro intorno ad una Nana Rossa (noi abbiamo IL SOLE, sigh). E attorno alla nana girano solo altri 5 pianeti (in caso di trasferimento, sarebbe da rivedere tutta la materia astrologica!).
A occhio, sembrerebbe andar bene per eremiti eschimesi in cerca di rapide, mezze stagioni, da vivere in assoluto silenzio...
Però sarebbe ottimo per spedirci - con biglietto di sola andata - quelli che sputano sulle bandiere, che fischiano gli inni nazionali o che tirano scarpe in Parlamento.
E a tutta un'altra serie di animali, di cui mi riservo di suggerire il nome in un secondo momento.
E' roccioso, abbastanza grande (4 volte la terra) e un po' freddino (la temperatura media di superficie oscilla fra i -31 e i -12 gradi centigradi), ma ci si può andare. Si trova a soli 20 anni luce dal nostro sistema solare.
Nonostante sia nella costellazione della Bilancia, non sembra però molto... poetico.
Già dal nome. Si chiama Gliese 581g. Impiega solo 37 giorni per fare il giro intorno ad una Nana Rossa (noi abbiamo IL SOLE, sigh). E attorno alla nana girano solo altri 5 pianeti (in caso di trasferimento, sarebbe da rivedere tutta la materia astrologica!).
A occhio, sembrerebbe andar bene per eremiti eschimesi in cerca di rapide, mezze stagioni, da vivere in assoluto silenzio...
Però sarebbe ottimo per spedirci - con biglietto di sola andata - quelli che sputano sulle bandiere, che fischiano gli inni nazionali o che tirano scarpe in Parlamento.
E a tutta un'altra serie di animali, di cui mi riservo di suggerire il nome in un secondo momento.
Chissà perché questa è una di quelle parole che fanno tanto clamore.
Io non la uso e non la userei perchè ho paura di perdere il controllo, ho paura di star male, perché non voglio nuocere ad altri e, soprattutto, perchè non voglio alimentare il suo mercato. Io no.
Ma non capisco perché faccia tanto effetto sapere chi e quanti, non capisco la morbosità relativa a chi la consuma, il disgusto e il disprezzo, almeno apparente, da parte dell'opinione pubblica, verso chi ha deciso di fondersi il cervello, per scelta. Come se, per farsi un'idea di qualcuno, si debba frugare nel suo guardaroba o nel suo frigorifero.
Quando guardavo giocare Maradona non pensavo alla droga che si faceva, quando vedo un Van Gogh non mi chiedo se le sue allucinazioni erano naturali, quando canto un pezzo dei Beatles non sto lì a chiedermi se è stato partorito prima o dopo aver fumato chissacché.
Affaracci loro.
Il problema è un altro.
Morgan non è John Lennon, Elisabetta Canalis non è Marilyn Monroe.
Se Elvis è morto soffocato dalla sua bulimia, per me è stato strangolato dalla fame di successo.
Se Michael Jackson è morto per un sonnifero di troppo, per me è non si è più svegliato per la paura di ritrovarsi solo con se stesso.
Che usassero o meno la droga, secondo me, è qualcosa che lascia il tempo che trova.
Io non la uso e non la userei perchè ho paura di perdere il controllo, ho paura di star male, perché non voglio nuocere ad altri e, soprattutto, perchè non voglio alimentare il suo mercato. Io no.
Ma non capisco perché faccia tanto effetto sapere chi e quanti, non capisco la morbosità relativa a chi la consuma, il disgusto e il disprezzo, almeno apparente, da parte dell'opinione pubblica, verso chi ha deciso di fondersi il cervello, per scelta. Come se, per farsi un'idea di qualcuno, si debba frugare nel suo guardaroba o nel suo frigorifero.
Quando guardavo giocare Maradona non pensavo alla droga che si faceva, quando vedo un Van Gogh non mi chiedo se le sue allucinazioni erano naturali, quando canto un pezzo dei Beatles non sto lì a chiedermi se è stato partorito prima o dopo aver fumato chissacché.
Affaracci loro.
Il problema è un altro.
Morgan non è John Lennon, Elisabetta Canalis non è Marilyn Monroe.
Se Elvis è morto soffocato dalla sua bulimia, per me è stato strangolato dalla fame di successo.
Se Michael Jackson è morto per un sonnifero di troppo, per me è non si è più svegliato per la paura di ritrovarsi solo con se stesso.
Che usassero o meno la droga, secondo me, è qualcosa che lascia il tempo che trova.
vincent van gogh - wheat field under clouded sky (1890)
Capita.
Anche a Belen è capitato.
Quello che definisce il suo addio definitivo (ma chi ci crede) a Fabrizio Corona - secondo l'intervista che la ragazza ha rilasciato a "Vanity Fair" - sarebbe dovuto a questioni di fiducia "anche perché è capitato, negli ultimi tempi, che non mi fidassi di lui...", ammette. Non è una delle tante crisi passeggere, a sua detta, si tratta di un addio definitivo. Per i maligni, forse nessuno dei due trae più beneficio dallo stare insieme all'altro. Per i romantici, la passione è finita. Oppure.
Oppure è veramente una questione di fiducia persa. Fiducia: la quintessenza di un rapporto d'amore. Una volta perduta, nei confronti di una persona, difficilmente si recupera.
Sembra incredibile. Eppure è così. Gli errori si fanno, gli errori costano, gli errori fanno male. E si fanno. Ancora. Lo stesso. Bugie, sbagli, menzogne. Orrori dell'anima. Che procurano fratture all'osso che, una volta spezzato, non si risalda mai nel modo giusto. O si risalda e poi si spezza. O fa male quando cambia tempo. Per ricordarti che la frattura è stata piccola ma dolorosa, grande anche se silente. Come un tarlo, scava silenziosa, anzi mica tanto, finché distrugge il materiale di cui si nutre e manda tutto in pezzi. Silenzioso, il sospetto che nasce dalla mancanza di fiducia, lavora dentro e combatte per vincere la guerra, non la battaglia.
Le battaglie durano anni, decenni. Ma alla fine, quel tarlo, la vince quella guerra.
Capita.
Anche a Belen è capitato.
Quello che definisce il suo addio definitivo (ma chi ci crede) a Fabrizio Corona - secondo l'intervista che la ragazza ha rilasciato a "Vanity Fair" - sarebbe dovuto a questioni di fiducia "anche perché è capitato, negli ultimi tempi, che non mi fidassi di lui...", ammette. Non è una delle tante crisi passeggere, a sua detta, si tratta di un addio definitivo. Per i maligni, forse nessuno dei due trae più beneficio dallo stare insieme all'altro. Per i romantici, la passione è finita. Oppure.
Oppure è veramente una questione di fiducia persa. Fiducia: la quintessenza di un rapporto d'amore. Una volta perduta, nei confronti di una persona, difficilmente si recupera.
Sembra incredibile. Eppure è così. Gli errori si fanno, gli errori costano, gli errori fanno male. E si fanno. Ancora. Lo stesso. Bugie, sbagli, menzogne. Orrori dell'anima. Che procurano fratture all'osso che, una volta spezzato, non si risalda mai nel modo giusto. O si risalda e poi si spezza. O fa male quando cambia tempo. Per ricordarti che la frattura è stata piccola ma dolorosa, grande anche se silente. Come un tarlo, scava silenziosa, anzi mica tanto, finché distrugge il materiale di cui si nutre e manda tutto in pezzi. Silenzioso, il sospetto che nasce dalla mancanza di fiducia, lavora dentro e combatte per vincere la guerra, non la battaglia.
Le battaglie durano anni, decenni. Ma alla fine, quel tarlo, la vince quella guerra.
Capita.
I mondiali di calcio sono un appuntamento estivo che nessuno può né vuole schivare completamente. L'amor di patria (ma forse di più l'amore per il pallone) ci impone di sederci davanti allo schermo per fare il tifo per gli Azzurri, così come ci sentiamo quasi obbligati, il 2 Giugno, a dare uno sguardo al cielo di Roma per cercare di avvistare le frecce tricolori. Un orgoglio.
Sono italiana e me ne vanto. Insomma, non me ne vergogno. Adoro questo paese e la mia città, quando me ne allontano troppo a lungo mi manca l'aria e riprendo a respirare quando riabbraccio smog e monumenti, epiteti e parolacce, tramonti e sguardi, gatti e umanità varia, che a Roma vivono gli uni a contatto degli altri in fraterna, totale, millenaria sopportazione. E orgoglio.
Nessun paese al mondo è così.
I Mondiali di calcio, però, vanno oltre l'orgoglio nazionale. Sono un evento la cui eco si diffonde in lungo e in largo, in basso e in alto, dentro la testa e nei cuori.
Puntuali, al primo incontro dei Mondiali, tutti abbiamo acceso la tv. E tutti, ma proprio tutti, abbiamo provato un terribile fastidio per quell'odioso frastuono che, incessantemente, ci tiene compagnia per tutta la durata della partita. Eppure lo sapevamo. Lo sapevamo che le vuvuzelas facevano tutto quel rumore...
I corni di plastica, simbolo della tradizione calcistica sudafricana, non piacciono a nessuno. I calciatori si distraggono, i tifosi non si godono la partita... Nonostante le lamentele ufficiali, la FIFA non può intervenire. Giusto. Io - sarò antica - al secondo incontro ho abbassato l'audio della tv e ho acceso quello della radio. Da lì, le trombette africane non danno tutto quel fastidio. La partita me la godo lo stesso. E ho smesso di lamentarmi.
Eppure, con mio grande stupore, c'è tanta gente che... corre a comprarsele. Non volevo credere ai miei occhi. Il 18 giugno, fila di un'ora, a Milano, per accaparrarsi quelle offerte gratuitamente dell'ente del turismo sudafricano (alla South Africa House, in viale Monte Nero - date un'occhiata a questo link).
La mattina seguente sono sull'autobus, in via del Corso, e sento le famose trombette. Fastidiosissime. Ma chi le suona? C'è una manifestazione davanti a Montecitorio. E i manifestanti sono lì, con striscioni, catene e tamburi ma, soprattutto, con tutto il fiato che hanno per soffiare la loro rabbia dentro a quelle trombe. Ho capito.
Le vuvuzelas non le sopporta nessuno perciò... sono ottime, per fare casino.
Avranno un gran successo.
Sono italiana e me ne vanto. Insomma, non me ne vergogno. Adoro questo paese e la mia città, quando me ne allontano troppo a lungo mi manca l'aria e riprendo a respirare quando riabbraccio smog e monumenti, epiteti e parolacce, tramonti e sguardi, gatti e umanità varia, che a Roma vivono gli uni a contatto degli altri in fraterna, totale, millenaria sopportazione. E orgoglio.
Nessun paese al mondo è così.
I Mondiali di calcio, però, vanno oltre l'orgoglio nazionale. Sono un evento la cui eco si diffonde in lungo e in largo, in basso e in alto, dentro la testa e nei cuori.
Puntuali, al primo incontro dei Mondiali, tutti abbiamo acceso la tv. E tutti, ma proprio tutti, abbiamo provato un terribile fastidio per quell'odioso frastuono che, incessantemente, ci tiene compagnia per tutta la durata della partita. Eppure lo sapevamo. Lo sapevamo che le vuvuzelas facevano tutto quel rumore...
I corni di plastica, simbolo della tradizione calcistica sudafricana, non piacciono a nessuno. I calciatori si distraggono, i tifosi non si godono la partita... Nonostante le lamentele ufficiali, la FIFA non può intervenire. Giusto. Io - sarò antica - al secondo incontro ho abbassato l'audio della tv e ho acceso quello della radio. Da lì, le trombette africane non danno tutto quel fastidio. La partita me la godo lo stesso. E ho smesso di lamentarmi.
Eppure, con mio grande stupore, c'è tanta gente che... corre a comprarsele. Non volevo credere ai miei occhi. Il 18 giugno, fila di un'ora, a Milano, per accaparrarsi quelle offerte gratuitamente dell'ente del turismo sudafricano (alla South Africa House, in viale Monte Nero - date un'occhiata a questo link).
La mattina seguente sono sull'autobus, in via del Corso, e sento le famose trombette. Fastidiosissime. Ma chi le suona? C'è una manifestazione davanti a Montecitorio. E i manifestanti sono lì, con striscioni, catene e tamburi ma, soprattutto, con tutto il fiato che hanno per soffiare la loro rabbia dentro a quelle trombe. Ho capito.
Le vuvuzelas non le sopporta nessuno perciò... sono ottime, per fare casino.
Avranno un gran successo.
La marea nera uccide i pesci, travolge l'economia degli stati del golfo, offusca l'ottimismo del governo democratico.
Un'esplosione (un'altra?) di una piattaforme che, da sola, in una sola notte, mette in crisi l'ecosistema, l'economia e la politica di un'intera nazione. Non solo.
Perché il mondo è uno ed è di tutti, e questo l'abbiamo capito in una sola volta, dopo l'esplosione di quel grattacielo, quel maledetto 11 settembre.
Prima, sembravamo non accorgercene. Poi, il dolore e la morte, come sempre, hanno portato a livello cosciente, e non solo di pochi eletti, la consapevolezza dell'unicità dei rischi, degli svantaggi e dei limiti, di una esistenza al limite del lecito, di un destino globale che decide, per tutti, in una sola volta.
Un'esplosione naturale, che ha generato la vita sulla terra.
Un'esplosione artificiale che, con il potere dell'infinitesimamente piccolo, ha segnato la vita di infinite generazioni.
Un'esplosione innaturale di una piattaforma petrolifera, che fa danni ad un ecosistema che, altrimenti, si sarebbe mantenuto in equilibrio per secoli.
Sì, è vero, ci sono anche esplosioni fantastiche, che generano sensazioni uniche: di colori, di risate, di gioia.
Anche queste, però, esauritesi, lasciano il buio, il silenzio, il vuoto.
Equilibrio - boato - mancanza di.
Tutto qui.
Più o meno come il boato di un licenziamento, che segna l'attimo che passa tra una una vita dignitosa e una miracolosa.
Come il boato di un dolore, che separa la salute dalla malattia.
Solo che, a differenza del petrolio estratto a forza dal mare, che distrugge un oceano e tutto quello che lambisce, della fuoriuscita dell'energia vitale che segna per sempre l'esistenza di un solo individuo, si cura soltanto chi la sta vedendo scorrere via.
Eppure è come sopra.
Uno squilibrio va sempre a danno di tutti.
Non ci sono sopravvissuti, non ci sono vincitori.
Quando un pezzo del puzzle viene a mancare, il quadro non è più lo stesso.
Un'esplosione (un'altra?) di una piattaforme che, da sola, in una sola notte, mette in crisi l'ecosistema, l'economia e la politica di un'intera nazione. Non solo.
Perché il mondo è uno ed è di tutti, e questo l'abbiamo capito in una sola volta, dopo l'esplosione di quel grattacielo, quel maledetto 11 settembre.
Prima, sembravamo non accorgercene. Poi, il dolore e la morte, come sempre, hanno portato a livello cosciente, e non solo di pochi eletti, la consapevolezza dell'unicità dei rischi, degli svantaggi e dei limiti, di una esistenza al limite del lecito, di un destino globale che decide, per tutti, in una sola volta.
Un'esplosione naturale, che ha generato la vita sulla terra.
Un'esplosione artificiale che, con il potere dell'infinitesimamente piccolo, ha segnato la vita di infinite generazioni.
Un'esplosione innaturale di una piattaforma petrolifera, che fa danni ad un ecosistema che, altrimenti, si sarebbe mantenuto in equilibrio per secoli.
Sì, è vero, ci sono anche esplosioni fantastiche, che generano sensazioni uniche: di colori, di risate, di gioia.
Anche queste, però, esauritesi, lasciano il buio, il silenzio, il vuoto.
Equilibrio - boato - mancanza di.
Tutto qui.
Più o meno come il boato di un licenziamento, che segna l'attimo che passa tra una una vita dignitosa e una miracolosa.
Come il boato di un dolore, che separa la salute dalla malattia.
Solo che, a differenza del petrolio estratto a forza dal mare, che distrugge un oceano e tutto quello che lambisce, della fuoriuscita dell'energia vitale che segna per sempre l'esistenza di un solo individuo, si cura soltanto chi la sta vedendo scorrere via.
Eppure è come sopra.
Uno squilibrio va sempre a danno di tutti.
Non ci sono sopravvissuti, non ci sono vincitori.
Quando un pezzo del puzzle viene a mancare, il quadro non è più lo stesso.
A TE
Tu sei quel respiro che mi toglie ancora il fiato
il solo nome che mi viene come cerco le parole...
Tu sei quel respiro che mi toglie ancora il fiato
il solo nome che mi viene come cerco le parole...
La mia macchina fa i capricci. Per qualche giorno la lascio dal meccanico. Mi sposto a piedi, quando posso, e quando non posso prendo un taxi. C'è un posteggio a cinquecento metri da casa, un telefono urbano da chiamare per avere in circa 60 secondi un'auto a disposizione.
Già al secondo giorno del malaugurato e incomprensibile (anche per i meccanici) malessere della mia auto, la linea della colonnina del taxi fa occupato. Sempre.
Ok, il telefono è isolato, lo aggiusteranno. Esco a piedi su quindici centimetri di tacchi. Per la fretta mi gioco un legamento del piede destro.
La macchina continua a fare le bizze. Mai, come in questi giorni, devo spostarmi velocemente in città più volte al giorno. Mi fa una rabbia dover chiamare il radiotaxi, che quando arriva a prenderti segna già 6/7 euro di chiamata... Perchè diavolo non riparano quella maledetta linea!
I giorni passano. Decido di chiamare la compagnia telefonica per segnalare il guasto.
Riesco a parlare con un umano solo dopo cinque/sei numeri verdi. Sì, perché la colonnina del taxi appartiene al Comune di Roma, e per segnalare un guasto di una linea comunale c'è una linea particolare, a cui risponde un operatore milanese di un'azienza (milanese?) che gestisce tutte le linee del Comune di Roma. Riesco finalmente a fare la mia segnalazione. L'operatore mi chiede nome, cognome, telefono, mi comunica il codice del reclamo e mi chiede il mio ruolo. Ma quale ruolo?
"Sono solo una cittadina che non può usufruire di un servizio pubblico".
L'operatore, perplesso, mi dice di attendere perché sta facendo un controllo. Mi dice che effettivamente la linea non funziona, perchè c'è un corto-circuito. Chiedo quanto ci vorrà per ripararlo. Massimo 24 ore, mi assicura. Saluto e ringrazio.
Il giorno seguente sono ancora su un'altra auto pubblica e chiedo all'autista notizie del telefono. Lui casca dalle nuvole. A sentir lui, nessuno si è accorto, in dieci giorni, dell'inconveniente.
L'indomani prendo un altro taxi e, per sfogarmi con qualcuno solidale alla mia battaglia, gli racconto tutta la storia. Il tassista mi scoppia a ridere in faccia:
"A signo', ma figurete se l'aggiusteno - risponde divertito - poi pure moricce attaccata ar telefono!"
Rispondo un po' piccata, da cittadina modello: "Però se domani funziona la chiamo e mi regala una corsa!". Lui continua a ridere e bofonchia. "Nun ce sperà...".
Il pomeriggio provo a chiamare. Il telefono squilla. Evviva, ce l'ho fatta. Il taxi lo pago un po' meno.
Passa ancora un giorno. Ricevo una telefonata della telecom. Perché? Ormai il problema è risolto. L'operatore vuole sapere chi sono. Ancora?
"Guardi, sono solo una cittadina che ha segnalato un guasto che mi impedisce di usufruire di un servizio pubblico!
"Aahh, ma lei, allora, lei non è una del Comune..."
"No che non lo sono - insisto - ma qual è il problema?"
Il silenzio dell'operatore è così eloquente che smetto di fare domande.
Ora devo prendere un taxi. Chiamo.
Ma guarda un po'. Il telefono è di nuovo isolato.
Già al secondo giorno del malaugurato e incomprensibile (anche per i meccanici) malessere della mia auto, la linea della colonnina del taxi fa occupato. Sempre.
Ok, il telefono è isolato, lo aggiusteranno. Esco a piedi su quindici centimetri di tacchi. Per la fretta mi gioco un legamento del piede destro.
La macchina continua a fare le bizze. Mai, come in questi giorni, devo spostarmi velocemente in città più volte al giorno. Mi fa una rabbia dover chiamare il radiotaxi, che quando arriva a prenderti segna già 6/7 euro di chiamata... Perchè diavolo non riparano quella maledetta linea!
I giorni passano. Decido di chiamare la compagnia telefonica per segnalare il guasto.
Riesco a parlare con un umano solo dopo cinque/sei numeri verdi. Sì, perché la colonnina del taxi appartiene al Comune di Roma, e per segnalare un guasto di una linea comunale c'è una linea particolare, a cui risponde un operatore milanese di un'azienza (milanese?) che gestisce tutte le linee del Comune di Roma. Riesco finalmente a fare la mia segnalazione. L'operatore mi chiede nome, cognome, telefono, mi comunica il codice del reclamo e mi chiede il mio ruolo. Ma quale ruolo?
"Sono solo una cittadina che non può usufruire di un servizio pubblico".
L'operatore, perplesso, mi dice di attendere perché sta facendo un controllo. Mi dice che effettivamente la linea non funziona, perchè c'è un corto-circuito. Chiedo quanto ci vorrà per ripararlo. Massimo 24 ore, mi assicura. Saluto e ringrazio.
Il giorno seguente sono ancora su un'altra auto pubblica e chiedo all'autista notizie del telefono. Lui casca dalle nuvole. A sentir lui, nessuno si è accorto, in dieci giorni, dell'inconveniente.
L'indomani prendo un altro taxi e, per sfogarmi con qualcuno solidale alla mia battaglia, gli racconto tutta la storia. Il tassista mi scoppia a ridere in faccia:
"A signo', ma figurete se l'aggiusteno - risponde divertito - poi pure moricce attaccata ar telefono!"
Rispondo un po' piccata, da cittadina modello: "Però se domani funziona la chiamo e mi regala una corsa!". Lui continua a ridere e bofonchia. "Nun ce sperà...".
Il pomeriggio provo a chiamare. Il telefono squilla. Evviva, ce l'ho fatta. Il taxi lo pago un po' meno.
Passa ancora un giorno. Ricevo una telefonata della telecom. Perché? Ormai il problema è risolto. L'operatore vuole sapere chi sono. Ancora?
"Guardi, sono solo una cittadina che ha segnalato un guasto che mi impedisce di usufruire di un servizio pubblico!
"Aahh, ma lei, allora, lei non è una del Comune..."
"No che non lo sono - insisto - ma qual è il problema?"
Il silenzio dell'operatore è così eloquente che smetto di fare domande.
Ora devo prendere un taxi. Chiamo.
Ma guarda un po'. Il telefono è di nuovo isolato.
Accendo la tele. La cronaca mi parla quotidianamente di morte. Morti rapide o lentissime, inaspettate o prevedibili, tranquille o violente. Abbiamo una sola esistenza e non sappiamo di certo come ci sarà tolta. Se saremo noi ad andare incontro alla morte o se sarà lei a sorprenderci, tagliando il filo che ci lega a quest'unica vita in un tempo infinitamente piccolo, tale da non farci nemmeno rendere conto del momento. Quale morte augurare ai propri cari, quale morte augurare a se stessi?
Spengo. Chiudo gli occhi.
Il pericolo reale, forse, non è quello di smettere di vivere (che in effetti non è un pericolo, è una certezza che nessuno può evitare). Quel che è pericoloso, davvero stavolta, è vivere senza rendersene conto.
Vegetare, con l'alibi di essere troppi stanchi del lavoro, troppo stressati dal traffico, troppo impegnati per ricordare cose diverse dall'essere... se stessi. Trascorrere giornate ad aspettare che finiscano, vivere il lavoro, l'amore, gli affetti, come se tutto fosse lì, immobile, per sempre. Credere di riposarsi sul divano inebetiti davanti ad uno schermo, mentre ciò che si sta facendo, realmente, è perdere tanti momenti più importanti di una vita che non ripasserà sotto ai tuoi occhi.
Perché crescendo si smette di studiare, di sognare l'amore, si dimenticano i progetti, si scordano i desideri, si accantonano i sogni, in nome di un rigore e di una compostezza strumentali solo alla nostra pigrizia, al nostro egoismo. Si eludono le responsabilità, si scambiano per doveri quelli che una volta si consideravano dei diritti e che, una volta, si consideravano dei piaceri, delle conquiste.
Non possiamo evitare di morire.
Ma io non voglio evitare di vivere.
Uno studio condotto dalla American Association for Cancer Research dichiara che una manciata di pistacchi al giorno potrebbe aiutare a prevenire l'insorgenza di tumori al polmone.
Grazie all'elevato contenuto in acidi grassi della serie omega-6, ad effetto ipocolesterolemizzante, i gustosi frutti secchi si sono dimostrati anche una fonte particolarmente concentrata di preziosi antiossidanti, in particolare di gamma-tocoferolo (una forma di vitamina E). Le stesse proprietà le avrebbero noci, nocciole, arachidi ed semi di soia. E allora? Mangiamo tutti più frutta secca, stando attento a non esagerare con la quantità (altrimenti ingrassiamo a vista d'occhio e allora addio benefici).
Ma...
Per incoraggiarci ad aumentare il consumo di frutta secca, ci viene incontro la Comunità Europea, la quale, stamattina, sottopone all'esame del Parlamento una proposta di innalzamento (anzi un raddoppiamento, per la precisione) dei limiti delle aflatossine consentite nella frutta secca (trattasi di "normale adeguamento a quanto in materia dispone di Codex Alimentarius", ente creato nel 1963 dalla FAO e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità per il controllo degli standard alimentari). Le aflatossine sono sostanze tossiche prodotte da muffe che possono trovarsi in diversi cibi, in special modo quelli secchi, dalle potenziali proprietà cancerogene.
Gli esperti italiani dell'Istituto Superiore di Sanità hanno espresso un parere contrario all'ipotizzato innalzamento dei limiti (che non solo metterebbe a rischio la salute dei consumatori, ma danneggerebbe gli agricoltori nazionali impegnati a garantire la qualità della produzione in Italia, leader europea nelle coltivazione di nocciole). Il più grande produttore mondiale di nocciole - ci ricorda la Coldiretti - è la Turchia, che produce il 78% delle nocciole importate in Europa. Importazioni con grossi problemi di contaminazione da aflatossine.
Se non mangiate noccioline e nemmeno Nutella, né biscotti, wafer, merendine, barrette energetiche, muesli e nemmeno yogurt, allora la cosa non vi riguarda.
Vi riguarda però l'aria che respirate.
Che c'entra?
Sembra che innalzare i valori "tollerabili" dei vari inquinanti sia l'unica risposta all'aumento dei veleni nell'aria che i nostri polmoni inglobano quotidianamente. Tant'è che anche il clima si adegua alle nostre "soluzioni" e "propone" l'innalzamento della temperatura globale. In modo più serio di noi.
Grazie all'elevato contenuto in acidi grassi della serie omega-6, ad effetto ipocolesterolemizzante, i gustosi frutti secchi si sono dimostrati anche una fonte particolarmente concentrata di preziosi antiossidanti, in particolare di gamma-tocoferolo (una forma di vitamina E). Le stesse proprietà le avrebbero noci, nocciole, arachidi ed semi di soia. E allora? Mangiamo tutti più frutta secca, stando attento a non esagerare con la quantità (altrimenti ingrassiamo a vista d'occhio e allora addio benefici).
Ma...
Per incoraggiarci ad aumentare il consumo di frutta secca, ci viene incontro la Comunità Europea, la quale, stamattina, sottopone all'esame del Parlamento una proposta di innalzamento (anzi un raddoppiamento, per la precisione) dei limiti delle aflatossine consentite nella frutta secca (trattasi di "normale adeguamento a quanto in materia dispone di Codex Alimentarius", ente creato nel 1963 dalla FAO e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità per il controllo degli standard alimentari). Le aflatossine sono sostanze tossiche prodotte da muffe che possono trovarsi in diversi cibi, in special modo quelli secchi, dalle potenziali proprietà cancerogene.
Gli esperti italiani dell'Istituto Superiore di Sanità hanno espresso un parere contrario all'ipotizzato innalzamento dei limiti (che non solo metterebbe a rischio la salute dei consumatori, ma danneggerebbe gli agricoltori nazionali impegnati a garantire la qualità della produzione in Italia, leader europea nelle coltivazione di nocciole). Il più grande produttore mondiale di nocciole - ci ricorda la Coldiretti - è la Turchia, che produce il 78% delle nocciole importate in Europa. Importazioni con grossi problemi di contaminazione da aflatossine.
Se non mangiate noccioline e nemmeno Nutella, né biscotti, wafer, merendine, barrette energetiche, muesli e nemmeno yogurt, allora la cosa non vi riguarda.
Vi riguarda però l'aria che respirate.
Che c'entra?
Sembra che innalzare i valori "tollerabili" dei vari inquinanti sia l'unica risposta all'aumento dei veleni nell'aria che i nostri polmoni inglobano quotidianamente. Tant'è che anche il clima si adegua alle nostre "soluzioni" e "propone" l'innalzamento della temperatura globale. In modo più serio di noi.
Negli anni '70, era il sogno di tanti adolescenti riuscire a possedere gli occhiali a raggi X, visti sulle pagine pubblicitarie dei giornali a fumetti, che riuscivano a farti vedere il corpo delle donne sotto i vestiti. Nessuno aveva i soldi per comprarli e chi lo aveva fatto, e aveva quindi scoperto che non funzionavano affatto, si sarebbe vergognato talmente tanto ad ammettere di esserci cascato come un pollo, che se ne stava zitto, facendo sì che il mito degli occhiali si rafforzasse sempre più, perdendo forza solo grazie al tempo che passava, e portava, insieme all'età adulta, un po' di sale in zucca. Ma sono in molti quelli che hanno conservato, nel loro inconscio, la magica illusione che qualcuno, prima o poi, gliene avrebbe regalato un paio di quegli occhiali, un paio che funzionasse davvero...
L'inventore dei body-scanner di cui, presto, verranno dotati gli aeroporti, deve proprio essere uno di quelli. Come sono sicuro che sono tra quelli, molti di coloro che non vedono l'ora di utilizzarli.
Inventare un apparecchio che fornisce un'immagine 3d del tuo corpo, nudo, in grado (ma questo diventa marginale) di scovare oggetti metallici, polveri, proiettili e persino capsule di esplosivi eventualmente ingerite dall'individuo: che meraviglia!
Peccato che tra i passeggeri in volo nei cieli del mondo, si nascondano pochissime di quelle donnine di cui sognavano di vederne i contorni. Peccato che di donne bellissime, dalle curve mozzafiato, siano già pieni gli schermi televisivi, le pellicole dei film, le pagine delle riviste e, senza guardare lontano, le spiagge d'estate, così come le palestre d'inverno.
Perché qualcuno, oggi, dovrebbe aver voglia di spogliare una donna cone gli occhi? Al povero maschio di oggi, dopo avergli mostrato il visibile e l'invisibile del corpo femminile, non resta che sognare altro. E come lamentarci se, in quell'altro, ci sono corpi diversi da quelli delle donne comuni, troppo sbattuti in faccia? Corpi non comuni che, fino a qualche anno fa, ci si guardava bene dal dichiarare, figuriamoci dall'esibire.
Come un enorme schiaffone morale alle femministe di ieri, quegli individui che la natura ha dotato di attributi incerti o di ormoni in surplus, oggi si prendono la rivincita. E con orgoglio e forza insospettabile, riescono ad attrarre uomini come mosche, che gli si appiccicano sempre più, pur di non vedere sempre e solo mogli e compagne in carriera che affidano i figli a baby-sitter che parlano un'altra lingua, comprano verdure già tagliate e pulite, frequentano chirurghi estetici che regalano loro un corpo di donna ancora più perfetto. Per una donna perfetta, sotto tutti i punti di vista.
Mentre i loro uomini, nel frattempo, vanno in cerca di corpi non perfetti.
Che, ironia della sorte, sembrano anche aver un cuore che sa ascoltare...
foto da internet
Veline & calciatori, deputati & trans, magistrati & tv.
Non pensavo a queste cose quando decisi di mettere al mondo un figlio. L'entusiamo, l'amore per la vita, la voglia di essere donna e dar frutto anche alle mie potenzialità fisiche oltre che mentali erano talmente preponderanti su dubbi e timori, che non ebbi alcuna esitazione, eccezion fatta per quelle di natura medica (delle quali, sinceramente, me ne sono sbattuta altamente).
Così, mettendo a parte gli egoismi e le paure che, tuo malgrado, entrano in gioco quando inizia la partita, ho lasciato che la natura compisse il suo corso.
Oggi ascolto, ma non comprendo, le donne che hanno paura di soffrire di parto, quelle che hanno paura di vedere il proprio corpo trasformato, quelle che non vogliono passare in secondo piano agli occhi del proprio compagno (o peggio dei loro genitori), quelle che rinunciano o rimandano in nome una carriera professionale senza intoppi, quelle che, tutto sommato, pensano che alle brutte un figlio lo possono anche adottare...
Ora che sono madre, ascolto ma non comprendo, quelli che cercano di farti vedere come tutto, ma proprio tutto, non funzioni, come il sistema sia bacato al suo interno, come sia inutile e inconsistente il tuo modo di vedere e di muoverti in un mondo in cui regna l'interesse personale e la brama di potere e che ti ignora, se non sei in grado di contruibuire a far muovere gli ingranaggi.
La gioia di generare è quella di un pittore che finisce la sua tela, di uno scultore che deve dare forma alla creta, di un musicista o uno scrittore che danno senso compiuto ad un mucchio di note e di parole. Con il compito gravoso - enorme e spaventoso - di dover dare un senso a quello che hanno creato: formargli una testa per pensare e gambe forti per andare, una mente lucida per discernere e un cuore grande per capire e perdonare. Ogni madre vorrebbe riuscire a dare questo ai propri figli.
Ma il lavoro manca. E decenni di studi non bastano a garantirtelo, mentre le veline ballano solo per un lustro e poi si godono ripetute vacanze ai tropici pagate da un assegno di mantenimento dell'ex coniuge asso del pallone. Questo non si può spiegare ad un figlio.
Nel terzo millennio, incredibile a dirsi, non c'è educazione che ti garantisca rispetto, non c'è morale che ti assicuri onestà. Regole, principi, leggi: perché applicarle o peggio insegnarle?
La risposta, tutto sommato, è semplice. L'unica cosa che può salvarci è una testa che funzioni. Può salvarci? E in quanto tempo? Ma che ne so... Di certo so che la capacità di giudizio è l'unica cosa che una madre dovrebbe aver cura di insegnare ai propri figli.
Essere in grado di pensare con la propria testa. Già.
Ecco perchè i valori etici e morali andrebbero comunque inculcati (sì, volevo proprio usare questo termine), non tralasciando il piccolo particolare di crederci e di dare pure il buon esempio, ovviamente. Vedere per capire, ascoltare per imparare, pensare per distinguere. Scegliere per vivere.
Se solo si avesse il coraggio di scegliere per vivere, e non per sopravvivere.
All'inizio dell'anno si fanno buoni propositi...
Non è mai troppo tardi per rinsavire e perchè, ognuno di noi, possa contribuire ad un mondo diverso.
Non è mai troppo tardi per rinsavire e perchè, ognuno di noi, possa contribuire ad un mondo diverso.
(E chi pensa che questo brano sia offensivo o blasfemo è un cretino!)
La macchina che guidi guarda bene non è tua,
la paghi tutti i giorni al fabbricante di liquame
che va a cena con i santi,
che t'infilano le bombe nelle tasche.
E fanno guerre
che bruciano ragazzi come te
che cadono col sogno di proteggere un sogno
e in chiesa la gente che piange
fa largo e si stringe
nel posto in prima fila c'è sempre
un governante che tratta col mercante
che cena con i santi che tirano le bombe
e tirano le somme e il ciclo non si rompe,
la guerra non è santa, ma noi stiamo arrivando
col libro in una mano, la bomba nell'altra...
Nel pane c'è il corpo, nel vino c'è il sangue.
Nell'oro il demonio, nell'umiltà il santo
Scintilla un anello di giallo metallo,
la mano pietosa saluta il Consiglio
Al polso gemelli di rosso rubino,
su un abito bianco di seta e di lino
La porpora è un manto di gloria e di vanto,
sul petto una croce con sopra il suo Santo
sul petto una croce con sopra il suo Santo
"Non m'immortalate", diceva il suo canto,
"non mi sbandierate", gridava il suo pianto
Nel pane c'è il corpo, nel vino c'è il sangue.
Che Dio ci perdoni, se stiamo pregando
col libro in una mano, la bomba nell'altra...
"Abbiamo un libro, una religione.
Abbiamo il fuoco, abbiamo ragione.
Abbiamo il fuoco, abbiamo ragione.
Saremo più grandi, saremo più uniti,
saremo più forti di chi ci ha colpiti..."
saremo più forti di chi ci ha colpiti..."
Col libro in una mano, la bomba nell'altra
Il 2010. Cifra impensabile solo a vederla scritta...
Noi siamo sempre qui, in un mondo ancora in piedi, nonostante tutto, su una terra così distante da quella che immaginavamo, soltanto pochi anni fa, nelle puntate di Spazio 1999.
La Terra è ancora, almeno apparentemente, di proprietà del genere umano che, giorno dopo giorno, nel tentativo egoista e disperato di tenersela stretta, lentamente la distrugge.
Eppure non c'è film di nessun ameno regista visionario, non c'è romanzo del più fervido scrittore di fantascienza nè scritto di alcun profeta dell'ultimo millennio che riesca ad immaginare quello che la realtà può riservarci.
E' per questo che la Terra - nonostante gli esseri umani - è ancora al suo posto.
E noi siamo qui, come bambini attoniti che a bocca aperta la guardano da sotto, a cercare di scoprire, ancora per un altro anno, come sarà in grado di stupirci. La nostra Madre Terra.
Noi siamo sempre qui, in un mondo ancora in piedi, nonostante tutto, su una terra così distante da quella che immaginavamo, soltanto pochi anni fa, nelle puntate di Spazio 1999.
La Terra è ancora, almeno apparentemente, di proprietà del genere umano che, giorno dopo giorno, nel tentativo egoista e disperato di tenersela stretta, lentamente la distrugge.
Eppure non c'è film di nessun ameno regista visionario, non c'è romanzo del più fervido scrittore di fantascienza nè scritto di alcun profeta dell'ultimo millennio che riesca ad immaginare quello che la realtà può riservarci.
E' per questo che la Terra - nonostante gli esseri umani - è ancora al suo posto.
E noi siamo qui, come bambini attoniti che a bocca aperta la guardano da sotto, a cercare di scoprire, ancora per un altro anno, come sarà in grado di stupirci. La nostra Madre Terra.
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